martedì 2 settembre 2025

La Responsabilità dei Soci e del Liquidatore nelle Società Cancellate dal Registro delle Imprese

L'ordinanza del Tribunale di Tivoli del 18 aprile 2016 offre un interessante spaccato delle problematiche giuridiche che emergono quando i creditori di una società cancellata dal registro delle imprese tentano di recuperare i propri crediti agendo nei confronti dei soci e del liquidatore. La vicenda si inquadra nel contesto della riforma del diritto societario attuata dal decreto legislativo n. 6 del 2003, che ha profondamente modificato gli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese. 

Come chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione con le sentenze nn. 6070, 6071 e 6072 del 12 marzo 2013, la cancellazione dal registro delle imprese determina l'estinzione definitiva della società, ma non comporta la scomparsa dei rapporti giuridici non definiti, che si trasferiscono ai soci attraverso un peculiare fenomeno successorio. L'articolo 2495 del codice civile, nella sua formulazione attuale, stabilisce che "ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi".

Il Tribunale di Tivoli ha correttamente applicato le norme sulla prescrizione, rilevando che il credito risarcitorio era prescritto sia secondo l'articolo 2947 del codice civile (prescrizione quinquennale per il risarcimento del danno da fatto illecito) sia secondo l'articolo 2949 del codice civile (prescrizione quinquennale per l'azione di responsabilità dei creditori sociali verso gli amministratori). La decisione evidenzia un aspetto procedurale importante: la notifica del precetto alla società nel 2012, ricevuta dal liquidatore, non era idonea a interrompere la prescrizione dell'azione di responsabilità nei confronti dei soci e del liquidatore, trattandosi di titoli di responsabilità diversi e di soggetti diversi rispetto al debitore originario.

L'ordinanza tocca uno dei punti più delicati della materia: la natura e i limiti della responsabilità dei soci per i debiti della società estinta. Come chiarito dalle Sezioni Unite, si determina un fenomeno di tipo successorio in virtù del quale le obbligazioni si trasferiscono ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione. Il Tribunale di Tivoli ha correttamente osservato che i ricorrenti non avevano provato che i soci avessero riscosso un attivo nella liquidazione. Anzi, il bilancio di liquidazione prodotto portava ad escludere tale circostanza. Questo aspetto è cruciale perché, come confermato dalla giurisprudenza più recente, il creditore deve provare l'avvenuta distribuzione dell'attivo e la conseguente riscossione di una quota di esso da parte del socio in base al bilancio finale di liquidazione. Tuttavia, l'evoluzione giurisprudenziale successiva ha chiarito che la mancata percezione di somme non esclude automaticamente la legittimazione passiva dei soci, come evidenziato dalla Cassazione civile con ordinanza n. 1249 del 2025, che ha precisato come i creditori possano avere comunque interesse all'accertamento del proprio diritto in relazione a possibili sopravvenienze attive o beni non contemplati nel bilancio.

Particolarmente interessante è l'analisi che il Tribunale dedica alla responsabilità del liquidatore ex articoli 2043 e 2491 del codice civile. Il giudice ha rilevato l'assenza di allegazioni specifiche circa le violazioni eventualmente poste in essere nella liquidazione, sottolineando che i ricorrenti si erano limitati a richiamare genericamente la responsabilità del liquidatore senza provare l'esistenza di utili distribuiti senza accantonare le somme necessarie per i creditori. La la responsabilità del liquidatore ha natura aquiliana e richiede pertanto la prova di specifiche condotte illecite. 

L'ordinanza del Tribunale di Tivoli, pur risalente al 2016, anticipa molte delle questioni che la giurisprudenza di legittimità ha successivamente affrontato e risolto. In particolare, la distinzione tra legittimazione processuale e responsabilità sostanziale dei soci è stata chiarita dalla Cassazione civile con ordinanza n. 6662 del 2025, che ha precisato come la legittimazione processuale degli ex soci non sia condizionata dall'effettiva percezione di somme in sede di riparto dell'attivo sociale. Analogamente, la questione dell'interesse ad agire è stata approfondita dalla Cassazione civile con ordinanza n. 17734 del 2025, che ha chiarito come tale interesse sussista indipendentemente dalla prova della percezione di somme da parte degli ex soci, avendo natura dinamica e potendo sussistere anche in assenza di utilità immediatamente conseguibili.

L'ordinanza del Tribunale di Tivoli rappresenta un esempio paradigmatico delle difficoltà che i creditori incontrano nel tentativo di recuperare i propri crediti verso società estinte. La decisione evidenzia l'importanza di una corretta impostazione dell'azione, sia sotto il profilo sostanziale che processuale, con particolare attenzione ad una corretta allegazione e prova dei presupposti dell'azione, sia nei confronti dei soci che del liquidatore.

Ordinanza Tribunale di Tivoli 18/04/2016



lunedì 4 agosto 2025

Contratto preliminare, iscrizioni pregiudizievoli non dichiarate e diritto al recesso.

La sentenza del Tribunale di Roma n. 8285/2023 offre un interessante spunto di riflessione sui delicati equilibri che governano i contratti preliminari di compravendita immobiliare, con particolare riferimento alla disciplina della caparra confirmatoria e agli obblighi di correttezza e buona fede che caratterizzano il rapporto tra le parti. Il caso in esame evidenzia come l'omessa comunicazione di vincoli reali gravanti sull'immobile possa configurare un inadempimento di gravità tale da legittimare il recesso del promissario acquirente con diritto alla restituzione del doppio della caparra. 

La disciplina della caparra confirmatoria trova la sua fonte primaria nell'art. 1385 del codice civile, che stabilisce un meccanismo di tutela bilaterale per i contraenti. Secondo tale disposizione, in caso di inadempimento della parte che ha ricevuto la caparra, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della somma versata, realizzando così una forma di liquidazione convenzionale del danno che esonera il creditore dall'onere di provarne l'entità. Il fondamento di tale tutela risiede negli obblighi generali di correttezza e buona fede che permeano l'intero rapporto contrattuale, codificati negli artt. 1175 e 1375 del codice civile. Tali principi assumono particolare rilevanza nella fase delle trattative e nell'esecuzione del contratto preliminare, imponendo alle parti un dovere di lealtà e trasparenza che si estende alla comunicazione di tutte le circostanze rilevanti per la valutazione dell'affare.

La fattispecie esaminata dal Tribunale di Roma presenta un profilo di particolare interesse sotto il profilo dell'inadempimento contrattuale. I promittenti venditori avevano omesso di comunicare al promissario acquirente l'esistenza di un'ipoteca legale gravante sull'immobile, circostanza che emergeva chiaramente dalla documentazione allegata al modulo di proposta d'acquisto, dove nella sezione relativa alle "iscrizioni/trascrizioni pregiudizievoli" non veniva indicata alcuna formalità. Il Tribunale ha correttamente inquadrato tale comportamento come violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l'esistenza di vincoli reali non dichiarati dal promittente venditore e non conosciuti dal promissario compratore legittima quest'ultimo all'attivazione dei rimedi a tutela della propria posizione. In particolare, la Corte di Cassazione ha chiarito che l'art. 1482 del codice civile, pur riferendosi al contratto definitivo di vendita, trova applicazione analogica anche al contratto preliminare, conferendo al promissario acquirente la facoltà alternativa di ottenere la liberazione dei pesi gravanti sul bene o di agire per la risoluzione del contratto. Pertanto quando il promittente venditore dichiara espressamente che l'immobile viene venduto libero da pesi, oneri, vincoli, ipoteche, privilegi anche fiscali, trascrizioni di pregiudizio, diritti di prelazione e imposte arretrate, ma successivamente risulta che il bene è gravato da iscrizioni ipotecarie non dichiarate, si configura un inadempimento contrattuale di non scarsa importanza che legittima il promissario acquirente ad esercitare il diritto di recesso.

Un aspetto centrale della decisione riguarda la valutazione della gravità dell'inadempimento, elemento essenziale per l'applicazione della disciplina di cui all'art. 1385 c.c. Il Tribunale ha chiarito che non è sufficiente il semplice ritardo o l'inadempimento di scarsa importanza, dovendo sussistere un inadempimento che legittimi la domanda di risoluzione sia sotto il profilo dell'imputabilità che della gravità. Nel caso di specie, la gravità dell'inadempimento è stata ravvisata non solo nell'omessa comunicazione dell'ipoteca, ma anche nella circostanza che, nonostante le rassicurazioni fornite dai notai incaricati circa la possibilità di risolvere la questione, l'ipoteca risultava ancora iscritta sui registri immobiliari a distanza di circa cinque mesi dalla stipulazione di un successivo atto di compravendita con altro acquirente. In buona sostanza costituisce inadempimento di non scarsa importanza la mancata comunicazione da parte del promittente venditore dell'esistenza di iscrizioni pregiudizievoli gravanti sull'immobile, quali ipoteca giudiziale e sequestro conservativo, anche quando tali formalità risultino apposte da tempo sui registri immobiliari, sottolineando come il canone di correttezza imponga la comunicazione di tali obiettive risultanze indipendentemente dall'esistenza di ragionevoli probabilità di pervenire alla loro cancellazione.

Un ulteriore profilo di interesse della sentenza riguarda il trattamento delle irregolarità urbanistiche dell'immobile, le quali assumono rilevanza diversa a seconda del grado di conoscenza delle parti e dell'incidenza sull'interesse contrattuale. Una recente sentenza della giurisprudenza di merito (Tribunale Castrovillari sentenza n. 578 del 01 aprile 2025) ha stabilito che integra inadempimento di non scarsa importanza, idoneo a legittimare il recesso ex articolo 1385 del codice civile, la condotta del promittente venditore che, pur avendo garantito contrattualmente la piena e libera proprietà dell'immobile e la sua libertà da qualsiasi peso o vincolo, nonché l'obbligo di consegnare al notaio ogni tipo di documento richiesto per la stipula, omette di sanare le irregolarità urbanistiche preesistenti e sottaciute ai promissari acquirenti.

infine, la sentenza affronta anche la questione del certificato di agibilità, chiarendo che tale documento è necessario non solo per le unità abitative ma anche per le autorimesse che abbiano subito rilevanti ristrutturazioni dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico in materia edilizia). Questa precisazione assume particolare rilevanza nella prassi contrattuale, dove spesso si sottovaluta l'importanza di tale certificazione per immobili diversi dalle abitazioni. La giurisprudenza ha tuttavia chiarito che la mancanza del certificato di agibilità non costituisce automaticamente inadempimento grave quando siano presenti in concreto i requisiti richiesti dalla legge e non sussistano ostacoli al rilascio. La Corte d'Appello di Milano, con sentenza n. 294/2025, ha precisato che "la mancanza del certificato di agibilità dell'immobile promesso in vendita non costituisce inadempimento grave quando siano presenti in concreto i requisiti richiesti dalla legge per l'agibilità e non sussistano ostacoli al rilascio del certificato, atteso che tale deficienza attiene ad un aspetto meramente formale".

Sentenza Tribunale Roma n. 8285/2023


martedì 29 luglio 2025

Tutela possessoria ed azione di reintegrazione ex art. 1168 c.c..

L'azione di reintegrazione nel possesso costituisce uno strumento di tutela immediata e sommaria, concessa a difesa di qualsiasi tipo di possesso.
Il caso in esame, che ha visto impegnato con successo lo studio, contiene tutti gli elementi che riguardano l'azione in oggetto. 
La configurazione del possesso tutelabile richiede la presenza congiunta di due elementi essenziali: il corpus, che si sostanzia nella materiale disponibilità del bene, e l'animus possidendi, che rappresenta l'intenzione di tenere la cosa come propria. 
La giurisprudenza di legittimità e di merito ha reiteratamente affermato che il possesso si configura come potere di fatto sulla cosa che si manifesta in una attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di qualsiasi altro diritto reale, costituito dall'animus, espressione del potere di fatto esercitato come se si avesse il corrispondente diritto, e dal corpus, inteso come la possibilità che il possessore possa impiegare secondo le sue determinazioni l'oggetto del possesso. 
L'accertamento dello spoglio rappresenta a sua volta il fulcro dell'azione di reintegrazione; esso si configura come qualsiasi atto che impedisca o restringa le facoltà inerenti al potere esercitato sulla res, caratterizzato dall'animus spoliandi. L'animus spoliandi integra pertanto l'elemento soggettivo della condotta tesa a violare l'altrui possesso e si sostanzia nella consapevolezza di attentare ad esso contro la volontà manifesta o presunta del possessore. Nel caso di specie non si configura lo spoglio operato dai resistenti poiché questi hanno acquisito il possesso del bene tramite la consegna da parte di un soggetto, riconosciuto dal Tribunale come compossessore, in ottemperanza ad una sentenza passata in giudicato, di talché deve escludersi che si sia concretizzata una condotta di spoliazione, in quanto trattasi non di una sottrazione, ma di una ricezione da taluno che, per la disponibilità delle chiavi e per le vicende oggetto del contenzioso giudiziario, si presentava come avente disponibilità dell'immobile.
Gli elementi oggettivi dello spoglio si articolano nella violenza o nella clandestinità: la prima non richiede necessariamente l'uso della forza fisica, essendo sufficiente che l'azione sia compiuta contro la volontà del possessore, la seconda, invece, va riferita allo stato di ignoranza di chi subisce lo spoglio, il quale deve essersi trovato nell'impossibilità di avere conoscenza del fatto costituente spoglio nel momento in cui questo viene posto in essere. 
L'azione di reintegrazione si svolge secondo il rito sommario di cognizione previsto dall'articolo 703 del codice di procedura civile. Questo procedimento, caratterizzato da una cognizione sommaria, consente al giudice di pronunciarsi sulla base di una valutazione non definitiva delle prove, privilegiando la rapidità della tutela rispetto all'approfondimento istruttorio. 
Un aspetto importante emerso dalle decisioni allegate riguarda la valutazione delle prove nel giudizio possessorio. Il Giudice deve accertare non solo l'esistenza del possesso, ma anche la sua effettiva consistenza al momento dello spoglio, l'onere probatorio grava sul ricorrente che deve dimostrare con verosimile certezza l'effettiva sussistenza di una situazione possessoria sul bene al momento del lamentato spoglio.




 

mercoledì 23 luglio 2025

Trust familiare e azione revocatoria, i rapporti fra tutela dei creditori e segregazione patrimoniale

 La recente sentenza del Tribunale di Roma n. 19652 del 29 dicembre 2024 offre un'analisi approfondita e sistematica dell'applicazione dell'azione revocatoria ex art. 2901 c.c. ai trust familiari, delineando con chiarezza i principi giuridici che governano questo delicato equilibrio tra la tutela delle ragioni creditorie e l'autonomia negoziale dei soggetti nell'organizzazione del proprio patrimonio familiare. La vicenda processuale in esame presenta infatti i caratteri tipici delle controversie che vedono contrapposti creditori e debitori nell'ambito di operazioni di segregazione patrimoniale attraverso trust; il creditore, forte di un titolo giudiziale definitivo, si è trovato di fronte alla costituzione di un Trust, istituito dalla debitrice con la finalità dichiarata di assicurare un reddito a titolo di mantenimento dei beneficiari, operazione che vedeva coinvolti soggetti legati da stretti vincoli familiari.

Il Tribunale romano ha accolto integralmente la domanda revocatoria, dichiarando inefficace nei confronti del creditore tanto l'atto istitutivo del trust quanto la specifica disposizione contenuta nell'articolo 36 che operava il trasferimento patrimoniale degli immobili al trustee. La decisione si inserisce in un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato che riconosce la piena applicabilità dell'azione revocatoria agli istituti di segregazione patrimoniale di derivazione anglosassone. 

Una delle questioni preliminari più significative affrontate dalla sentenza riguarda la soggettività giuridica del trust nell'ordinamento italiano. Il Tribunale ha chiarito definitivamente che il trust non possiede autonoma soggettività giuridica, confermando l'orientamento della Cassazione secondo cui le azioni revocatorie ed esecutive non vanno notificate al trust, come autonomo soggetto di diritto, ma al trustee, in ragione della titolarità in capo solo a questo del potere di disposizione e di gestione sui beni. Questa precisazione assume rilevanza pratica fondamentale, poiché risolve le frequenti eccezioni processuali sollevate dai convenuti circa la nullità dell'atto di citazione per mancata notificazione al trust. Il Giudice capitolino ha inoltre stabilito che dal tenore complessivo dell'atto di citazione deve emergere chiaramente la qualifica con cui viene evocato in giudizio il trustee, senza che sia necessaria una specifica menzione della sua qualità, purché non sorga alcun ragionevole dubbio sull'identificazione del soggetto convenuto

Particolarmente interessante è anche la soluzione adottata per la questione del litisconsorzio necessario dei beneficiari. Il Tribunale ha stabilito che nei trust a titolo gratuito i beneficiari non rivestono la qualità di litisconsorti necessari, atteso che solo per gli atti a titolo oneroso lo stato soggettivo del beneficiario rileva quale elemento costitutivo della fattispecie. Questa distinzione, che trova conferma nella giurisprudenza di legittimità, semplifica notevolmente l'architettura processuale delle azioni revocatorie contro trust familiari, evitando la necessità di coinvolgere nel giudizio soggetti che non hanno un interesse diretto e attuale sui beni segregati.

Il cuore della decisione risiede nella qualificazione del trust familiare come atto a titolo gratuito ai fini dell'applicazione dell'art. 2901 c.c. Questa qualificazione, ormai consolidata nella giurisprudenza di legittimità, comporta conseguenze processuali e sostanziali di estrema rilevanza, poiché per gli atti gratuiti non è richiesta la prova della consapevolezza del pregiudizio da parte dei beneficiari, elemento invece necessario per gli atti onerosi. Il Tribunale ha respinto con fermezza le argomentazioni dei convenuti volte a dimostrare l'onerosità del trust attraverso la produzione di una scrittura privata che avrebbe documentato precedenti accordi familiari. La decisione si fonda sul principio della fede privilegiata dell'atto pubblico ex art. 2700 c.c., stabilendo che tale dichiarazione, come del resto tutte quelle fatte innanzi al pubblico ufficiale, hanno valore privilegiato ex art. 2700 c.c., né possono essere superate con una scrittura privata, quale quella del 2015 versata in atti, che seppur avente data certa, derivante dal timbro postale delle raccomandate, non ha fede privilegiata nel suo contenuto a differenza dell'atto pubblico richiamato.

La giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla sentenza, ha chiarito che l'istituzione di trust familiare non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura - ai fini della revocatoria ordinaria - un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un'attribuzione in favore dei disponenti. Il Tribunale romano ha altresì riconosciuto senza esitazioni la sussistenza dell'eventus damni, elemento oggettivo dell'azione revocatoria che si sostanzia nel pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie attraverso l'atto dispositivo del debitore. Nel caso dei trust, questo pregiudizio si manifesta attraverso l'effetto segregativo che sottrae i beni conferiti alla garanzia patrimoniale generica di cui all'art. 2740 c.c.. La sentenza chiarisce che l'eventus damni non richiede necessariamente una totale compromissione del patrimonio del debitore, essendo sufficiente una variazione qualitativa o quantitativa che renda più difficile o incerta la soddisfazione del credito. Come evidenziato dalla Corte d'Appello di Venezia nella sentenza n. 1928/2024, il requisito oggettivo dell'eventus damni ricorre non solo quando l'atto dispositivo compromette totalmente la consistenza patrimoniale del debitore, ma anche quando determina una variazione soltanto qualitativa del patrimonio che comporti una maggiore incertezza o difficoltà nel soddisfacimento del credito.

Per quanto riguarda l'elemento soggettivo, il Tribunale ha ritenuto provata la scientia damni in capo alla disponente, basandosi sulla circostanza che il trust era stato istituito successivamente al passaggio in giudicato della sentenza che aveva definito il rapporto di credito-debito. Questa tempistica assume valore decisivo, poiché dimostra che la disponente era pienamente consapevole dell'esistenza del credito e delle sue implicazioni patrimoniali al momento della costituzione del trust. La giurisprudenza più recente ha chiarito che la scientia damni può essere provata anche attraverso presunzioni semplici, come evidenziato dalla sentenza del Tribunale di Cosenza n. 1928/2024, secondo cui la scientia damni può essere presunta attraverso presunzioni semplici derivanti dalla sussistenza di vincoli parentali tra il debitore e il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente.

Un aspetto particolarmente interessante della sentenza riguarda la questione dell'accettazione dell'eredità da parte della convenuta. Il Tribunale ha stabilito che la costituzione in giudizio del delato come erede costituisce accettazione tacita dell'eredità, anche quando successivamente venga formalizzata l'accettazione con beneficio di inventario. La decisione si fonda su un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui varie sono le attività processuali, compiute dal delato come se fosse erede, reputate accettazione tacita dell'eredità, includendo la costituzione o l'intervento in un giudizio in qualità di erede. 

La sentenza offre anche un'ampia disamina dell'inquadramento sistematico del trust nell'ordinamento italiano, richiamando la Convenzione dell'Aja del 1985, ratificata con legge n. 364/1989, che ha consentito il riconoscimento di questo istituto di derivazione anglosassone. Il Tribunale ha chiarito che il trust è un istituto di origine anglosassone che affonda le sue antiche origini in quella parte dell'ordinamento inglese nota col nome di 'equity', caratterizzato da uno sdoppiamento della proprietà: la proprietà formale spetta al trustee, quella sostanziale al beneficiario. L'effetto principale del trust, la segregazione patrimoniale, viene descritto come la creazione di un patrimonio separato in via definitiva (salvo revoca) dagli altri beni che compongono il patrimonio del trustee, come anche dal patrimonio del disponente (che se ne spoglia definitivamente) e del beneficiario. Questa separazione patrimoniale, pur essendo l'essenza dell'istituto, non può tuttavia essere utilizzata per eludere le legittime aspettative dei creditori, come dimostrato dall'applicabilità dell'azione revocatoria.

La sentenza del Tribunale di Roma rappresenta un contributo significativo alla definizione dell'equilibrio tra tutela dei creditori e autonomia negoziale nell'ambito dei trust familiari. L'approccio adottato dal Giudice romano, caratterizzato da rigore metodologico e attenzione ai profili sostanziali, offre una guida preziosa per la risoluzione delle controversie in questa delicata materia. L'orientamento giurisprudenziale consolidato riconosce la piena legittimità dell'utilizzo del trust per finalità di organizzazione patrimoniale familiare, ma al contempo garantisce ai creditori gli strumenti necessari per tutelare le proprie ragioni quando l'istituto venga utilizzato in modo elusivo. Questa impostazione appare equilibrata e rispettosa tanto dell'autonomia privata quanto delle esigenze di tutela del credito.




lunedì 21 luglio 2025

La Nullità del Testamento Olografo per Difetto di Autografia

 La recente pronuncia del Tribunale di Roma n. 1318/2025 offre un'analisi esemplare delle problematiche connesse all'impugnazione dei testamenti olografi per falsità, delineando con chiarezza i principi giuridici e le metodologie probatorie che governano questa delicata materia del diritto successorio.

La vicenda processuale trae origine dall'impugnazione di un testamento olografo con il quale il de cuius aveva disposto un legato di 50.000 euro in favore del badante. L'erede universale, istituito con precedente testamento olografo del 27 luglio 2010, ha contestato l'autenticità del secondo testamento, sostenendone la natura apocrifa e chiedendone la declaratoria di nullità.

La peculiarità del caso risiede nella circostanza che il secondo testamento non revocava esplicitamente il precedente, limitandosi a disporre un legato che risultava perfettamente compatibile con l'istituzione ereditaria già operata. Questa configurazione ha consentito al Tribunale di affermare la legittimazione dell'attore, in quanto erede universale secondo il primo testamento non contestato.

La disciplina del testamento olografo trova il proprio fondamento nell'articolo 602 del codice civile, che stabilisce i requisiti formali essenziali: il testamento deve essere "scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore". L'autografia rappresenta dunque un elemento costitutivo imprescindibile, la cui mancanza determina nullità ai sensi dell'articolo 606 del codice civile. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'impugnazione per falsità del testamento olografo si configura come domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, con conseguente allocazione dell'onere probatorio in capo al soggetto che contesti l'autenticità del documento. Tale orientamento, consolidato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12307/2015, trova conferma nella recente giurisprudenza di merito, come evidenziato dalla sentenza del Tribunale di Napoli n. 887/2025.

Il cuore della decisione romana risiede nell'analisi della consulenza tecnica d'ufficio; il Tribunale ha evidenziato come la metodologia seguita dalla consulente sia stata rigorosamente scientifica, articolandosi nelle fasi canoniche dell'indagine grafologica: esame del documento in verifica, analisi delle scritture comparative, fase confrontuale e formulazione delle conclusioni.

La consulente ha proceduto ad un'analisi multidimensionale del testamento contestato, esaminando il ritmo scrittorio, l'immagine grafica, l'armonia compositiva, le dimensioni dei caratteri, la pressione del tratto e tutte le caratteristiche grafiche-estetiche. Particolare rilevanza ha assunto l'analisi delle scritture di comparazione, costituite non soltanto da sottoscrizioni ma anche da pagine manoscritte, incluso il precedente testamento olografo del 2010.

L'elemento decisivo per l'accertamento della falsità è stato individuato nella peculiarità che il testamento impugnato risultava vergato in stampatello, mentre tutte le scritture comparative del de cuius utilizzavano esclusivamente il corsivo. Inoltre, la consulente ha rilevato l'assenza di fluidità nel tratto, evidenziando interruzioni, stacchi, riprese e giustapposizioni ben visibili dall'analisi microscopica e rilevabili anche dalla presenza di macchie di inchiostro generate dalle soste nella stesura dello scritto.

Un aspetto particolarmente significativo della pronuncia riguarda l'identificazione dell'assenza di fluidità nel tratto come elemento sintomatico di falsificazione. La consulente ha correttamente osservato che tali caratteristiche sono tipiche di chi scrive senza naturalezza, risultando del tutto assenti nelle scritture autografe comparative del de cuius, anche in quelle coeve o temporalmente vicine al testamento impugnato. Costituiscono infatti indizi di falsificazione la scrittura poco fluida, lenta, accurata, slegata, con pressione piatta e uniforme che non risponde all'alternanza fisiologica di chiari e scuri tipica della scrittura spontanea, la presenza di tremolii dovuti ad eccessivo controllo della penna, arresti e rallentamenti del moto grafico.

Il Tribunale di Roma ha aderito integralmente alle conclusioni della consulenza tecnica, richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice di merito esaurisce l'obbligo di motivazione aderendo alle conclusioni del consulente che abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte. Tale principio, riaffermato dalla Cassazione con le sentenze n. 33742/2022 e n. 15147/2018, trova applicazione quando le conclusioni peritali risultino adeguatamente argomentate e immuni da vizi metodologici.

La declaratoria di nullità del testamento per difetto di autografia comporta conseguenze giuridiche di particolare rilevanza. In primo luogo, resta assorbita la domanda subordinata di inefficacia del legato ex articolo 654 del codice civile, che trova applicazione quando il testatore abbia lasciato una cosa particolare non presente nel patrimonio al momento della morte. La nullità del testamento determina inoltre il rigetto della domanda riconvenzionale del convenuto, diretta all'esecuzione del legato, che presuppone necessariamente la validità del testamento stesso.

La sentenza del Tribunale di Roma rappresenta un esempio paradigmatico dell'approccio metodologico che deve caratterizzare l'accertamento della falsità dei testamenti olografi. La pronuncia evidenzia come la consulenza tecnica grafologica, quando condotta con rigorosa metodologia scientifica, costituisca strumento probatorio privilegiato per l'accertamento dell'autografia. La decisione conferma inoltre l'importanza dell'analisi dinamica della scrittura, che deve estendersi oltre la mera similarità formale per indagare gli aspetti ritmici e motori del grafismo. L'assenza di fluidità nel tratto, le interruzioni e le giustapposizioni costituiscono elementi sintomatici di particolare rilevanza, specialmente quando contrastino con le caratteristiche grafiche costanti del presunto testatore.

Sentenza Tribunale Roma n. 1318/2025


mercoledì 16 luglio 2025

 La controversia in esame trae origine dalla sottoscrizione, in data 16 novembre 2020, di due distinti contratti preliminari di compravendita immobiliare, riguardanti due appartamenti adiacenti situati al primo piano di un edificio in costruzione.

A fronte del prezzo pattuito, parte promissaria acquirente aveva versato acconti per complessivi € 65.000,00, mentre il termine ultimo per la stipula dell’atto definitivo era fissato al 30 giugno 2022.  Il mancato rispetto di tale termine ha determinato l’invio, da parte dell’acquirente, di una diffida ad adempiere rimasta senza riscontro.

Dopo aver ottenuto un sequestro conservativo sui beni della venditrice, parte promissaria acquirente adiva il Tribunale di Avezzano per ottenere la risoluzione dei suddetti preliminari per fatto e colpa della venditrice.

Il Tribunale di Avezzano nella sentenza allegata ha correttamente applicato i principi consolidati in materia di inadempimento contrattuale, richiamando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione deve limitarsi a provare la fonte del proprio diritto e il relativo termine di scadenza, con mera allegazione dell’inadempimento della controparte. Infatti, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre è il debitore convenuto ad essere gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento.

Sentenza Tribunale Avezzano n. 281/2025

 Si è concluso positivamente un giudizio di revocazione ex art. 395 c.p.c. che ha visto impegnato lo studio.

La revocazione ex art. 395 del codice di procedura civile rappresenta uno dei mezzi di impugnazione straordinari del nostro ordinamento processuale, caratterizzato da una disciplina rigorosamente vincolata che risponde all’esigenza di bilanciare la stabilità del giudicato con l’esigenza di giustizia sostanziale in situazioni del tutto eccezionali.

L’istituto si configura come un rimedio impugnatorio a critica vincolata, esperibile esclusivamente per i motivi tassativamente previsti dalla norma e limitatamente alle sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado. Come chiarito dalla giurisprudenza più recente, la revocazione risponde alla logica di consentire solo in ipotesi del tutto straordinarie ed eccezionali di mettere in discussione una decisione ormai passata in giudicato, al fine di tutelare il valore costituzionale della certezza del diritto ex art. 3 Cost. e di garantire il diritto di difesa della controparte in armonia con gli artt. 24 e 111 Cost.

I sei motivi di revocazione si distinguono tradizionalmente in due categorie fondamentali. La revocazione straordinaria, disciplinata dai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395, riguarda vizi inizialmente occulti che divengono conoscibili solo successivamente al passaggio in giudicato della sentenza: il dolo di una delle parti in danno dell’altra, il giudizio fondato su prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza, il rinvenimento di documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario, e il dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato.

La revocazione ordinaria, prevista dai numeri 4 e 5, concerne invece vizi immediatamente rilevabili dalla sentenza stessa: l’errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa e la contrarietà ad altra precedente sentenza avente autorità di cosa giudicata tra le parti. Questi motivi, essendo per loro natura immediatamente percepibili, devono essere esperiti entro gli ordinari termini di impugnazione, operando la revocazione in rapporto di sussidiarietà con l’appello.

Particolarmente significativa è la disciplina dell’art. 396 c.p.c., che stabilisce un regime differenziato per le sentenze di primo grado per le quali è scaduto il termine per l’appello, consentendo la revocazione esclusivamente nei casi straordinari previsti dai numeri 1, 2, 3 e 6, con espressa esclusione dei motivi ordinari. Tale previsione trova giustificazione nel rilievo che i motivi di revocazione straordinaria vengono riconosciuti dalla parte soltanto a seguito della scoperta di fatti precedentemente ignorati, mentre quelli ordinari sono rilevabili fin dalla pubblicazione della sentenza.

Il procedimento revocatorio si articola in due fasi distinte: il judicium rescindens, nel quale il giudice accerta d’ufficio la sussistenza di uno dei motivi di revocazione e il nesso di causalità con la decisione impugnata, e il judicium rescissorium, caratterizzato da un ragionamento controfattuale volto a verificare la resistenza della decisione una volta sostituita l’affermazione errata con quella esatta.

La proposizione della revocazione avviene mediante citazione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, come stabilito dall’art. 398 c.p.c. La citazione deve indicare, a pena di inammissibilità, il motivo della revocazione e le prove relative alla dimostrazione dei fatti, nonché il giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo o della falsità, o del recupero dei documenti per i motivi straordinari.

I termini per la proposizione seguono una disciplina articolata: per i motivi straordinari, il termine di trenta giorni decorre dal giorno della scoperta del dolo, della falsità o del recupero dei documenti, mentre per quelli ordinari il termine segue la disciplina generale delle impugnazioni. Come precisato dall’art. 327 c.p.c., la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 non può proporsi dopo decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.

La giurisprudenza ha chiarito che ciascun motivo di revocazione presenta requisiti specifici la cui sussistenza deve essere rigorosamente accertata. Per il documento decisivo ex numero 3, è necessario che sia preesistente alla decisione impugnata e che l’impossibilità di produzione derivi da cause non imputabili alla parte. Per l’errore di fatto ex numero 4, deve sussistere un contrasto oggettivo tra la rappresentazione della realtà nella sentenza e quella negli atti processuali, senza che il fatto abbia costituito punto controverso. Per la contrarietà a precedente giudicato ex numero 5, occorre una perfetta identità tra i due giudizi quanto a soggetti e oggetto.

L’istituto trova applicazione anche in settori specialistici, come evidenziato dalla sua estensione al processo tributario, amministrativo e arbitrale, sempre nel rispetto dei principi generali che ne governano la disciplina e della sua natura di rimedio eccezionale volto a garantire giustizia sostanziale senza compromettere la stabilità del sistema giurisdizionale.

L’articolo 1116 del codice civile rappresenta una norma di chiusura del sistema della comunione ordinaria che stabilisce un importante principio di integrazione normativa tra i due principali regimi di comunione previsti dal nostro ordinamento. La disposizione, rubricata “Applicabilità delle norme sulla divisione ereditaria”, sancisce che “alla divisione delle cose comuni si applicano le norme sulla divisione dell’eredità, in quanto non siano in contrasto con quelle sopra stabilite”.

Questa formulazione rivela la logica sistematica sottesa al rapporto tra comunione ordinaria e comunione ereditaria nel codice civile. Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, l’articolo 1100 del codice civile configura la disciplina della comunione ordinaria come normativa di carattere generale, applicabile “quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone, se il titolo o la legge non dispone diversamente”. Le norme sulla comunione ereditaria assumono invece carattere di specialità rispetto a quelle generali, trovando applicazione quando l’elemento specializzante è rappresentato dalla peculiare fattispecie costitutiva della contitolarità derivante da delazione ereditaria seguita da accettazione.

Il meccanismo di rinvio operato dall’articolo 1116 funziona secondo una logica di sussidiarietà e compatibilità. Come precisato dalla giurisprudenza di merito, le disposizioni dettate dal libro secondo del codice civile con riguardo alla divisione dell’eredità assumono carattere di specialità, dove l’elemento specializzante è dato dalla peculiare ipotesi costitutiva della situazione di contitolarità rappresentata da una fattispecie complessa che alla delazione ereditaria vede seguire l’accettazione da parte dei chiamati.

L’applicazione delle norme sulla divisione ereditaria alla comunione ordinaria non è tuttavia automatica né integrale, ma deve rispettare il limite della compatibilità con la disciplina specifica della comunione ordinaria. Questo principio trova significative applicazioni pratiche, come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza in materia di retratto successorio. La Cassazione ha chiarito che il retratto successorio previsto dall’articolo 732 del codice civile non si applica nella situazione di comunione ordinaria conseguente alla congiunta attribuzione di un bene ad alcuni coeredi in sede di divisione, non potendo operare l’articolo 732 in virtù del rinvio di cui all’articolo 1116, in quanto per la comunione ordinaria vige il principio di libera disposizione della quota ai sensi dell’articolo 1103 del codice civile.

La ratio di questa esclusione risiede nella considerazione che l’istituto del retratto successorio risponde alla specifica esigenza di impedire l’intromissione di estranei nello stato di contitolarità determinato dall’apertura della successione mortis causa, finalità che non sussiste nella comunione ordinaria dove opera il principio generale della libera circolazione dei diritti. Come osservato dalla giurisprudenza, la disposizione dell’articolo 732 opera in manifesta deroga al principio della libera disponibilità del diritto di proprietà e non può trovare applicazione fuori dei casi espressamente previsti.

Diversa è invece la situazione per quanto concerne le norme procedimentali e operative della divisione. Il rinvio dell’articolo 1116 consente l’applicazione alla comunione ordinaria di principi consolidati nella divisione ereditaria, come quello relativo al regolamento dei debiti dipendenti dalla comunione. La Cassazione ha precisato che nello scioglimento della comunione ereditaria, al pari di quanto accade per quella ordinaria ai sensi dell’articolo 1115 comma 3 del codice civile, il regolamento dei debiti dipendenti dai rapporti di comunione può essere realizzato attraverso il prelievo di beni dalla massa in proporzione alle rispettive quote ovvero attraverso l’incremento delle quote di concorso.

Particolarmente significativo è il principio secondo cui la comunione ereditaria, una volta sciolta mediante divisione, si trasforma in comunione ordinaria per i beni eventualmente rimasti indivisi. Come chiarito dalle Sezioni Unite, lo scioglimento della comunione ereditaria mediante divisione della maggior parte dei beni del compendio non è incompatibile con il permanere di uno stato di comunione ordinaria su singoli beni già compresi nell’asse ereditario. La comunione residuale sui beni ereditari non divisi si trasforma in comunione ordinaria, regolata dalle norme sulla comunione in generale.

La distinzione strutturale tra i due tipi di comunione emerge chiaramente dalla loro diversa configurazione ontologica. Mentre la comunione ereditaria ha natura di universitas iuris e comprende l’intero patrimonio del de cuius, la comunione ordinaria presenta una struttura atomistica, riferendosi specificamente alla “cosa comune” come evidenziato dal costante riferimento normativo a tale locuzione negli articoli 1102, 1103, 1104, 1105, 1114 e 1115 del codice civile. Come osservato dalla giurisprudenza di merito, quando i beni in comune provengono da titoli diversi, non si realizza un’unica comunione ma tante comunioni quanti sono i titoli di provenienza.

L’applicazione dell’articolo 1116 trova inoltre rilevanza nella disciplina delle operazioni divisionali. Mentre nella comunione ordinaria la divisione ha luogo in natura se la cosa può essere comodamente divisa in parti corrispondenti alle quote dei partecipanti, nella divisione ereditaria le porzioni devono essere formate comprendendo una quantità di mobili, immobili e crediti di eguale natura e qualità in proporzione dell’entità di ciascuna quota. Il rinvio operato dall’articolo 1116 consente di applicare alla comunione ordinaria i principi più articolati della divisione ereditaria quando ciò risulti compatibile con la natura atomistica della prima.

La giurisprudenza ha inoltre chiarito che l’applicazione delle norme sulla divisione ereditaria alla comunione ordinaria non può estendersi agli aspetti che contrastano con i principi fondamentali di quest’ultima. Emblematico è il caso della determinazione delle quote di partecipazione, dove la Cassazione ha precisato che nella comunione ordinaria la misura della partecipazione risulta già stabilita dalla legge secondo il principio della parità delle quote sancito dall’articolo 1101 del codice civile, rendendo superflua qualsiasi determinazione assembleare di carattere provvisorio tipica invece della gestione condominiale.

L’articolo 1116 rappresenta dunque un meccanismo di integrazione normativa che consente di colmare le lacune della disciplina della comunione ordinaria attingendo al più ricco patrimonio di norme elaborate per la comunione ereditaria, sempre nel rispetto del principio di compatibilità che impedisce l’applicazione di istituti specificamente legati alla natura successoria del rapporto. Questa tecnica legislativa riflette la consapevolezza del codificatore circa la necessità di assicurare completezza normativa alla disciplina della comunione ordinaria senza snaturarne i caratteri distintivi, realizzando un equilibrio sistematico tra specialità e generalità che caratterizza l’intera architettura del diritto civile dei beni.

Sentenza Corte di Appello di Roma n. 349/2025