martedì 15 dicembre 2015

Composizione crisi sovraindebitamento omologazione in difetto di approvazione del creditore.

Il D.L. 22/12/2011 n. 212, successivamente novellato dalla legge 27/01/2012, n. 3, ha introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del sovraindebitamento, che si applica all'insolvente civile rispetto al quale, stante il difetto della qualifica di imprenditore, non possono trovar applicazione le procedure concorsuali. 
Occorre preliminarmente, ai sensi degli artt. 11 e 12 della citata legge, far predisporre il piano del consumatore dall'organismo di composizione della crisi, una volta predisposto detto piano viene trasmesso al giudice che, in caso di omologa, ne dispone l'immediata pubblicazione. Per potersi omologare l'accordo deve prevedere il rispetto della percentuale fissata nell'articolo 11, comma 2, e, nel contempo, assicurare il pagamento integrale dei crediti impignorabili, nonché dei crediti di cui all'articolo 7, comma 1, terzo periodo.
La sentenza in esame si dimostra interessante poiché resa in caso di mancata adesione di uno dei creditori ed in presenza di contestazioni circa la convenienza dell'accordo.
Il Tribunale di Napoli ha chiarito che "deve essere omologato il piano del consumatore di cui alla legge n. 3/2012 per la composizione della crisi da sovraindebitamento, che porta al dimezzamento del debito costituito dal mutuo ipotecario nei confronti della banca, dovendosi ritenere che detto piano, pur prevedendo il pagamento in misura parziale del creditore ipotecario stante la stima del valore commerciale del bene immobile, e il pagamento nella misura integrale del credito chirografo (ad esclusione degli interessi), assicura per essi una percentuale di soddisfazione presumibilmente non inferiore a quella che otterrebbero in caso di liquidazione, dovendosi osservare che la valutazione sulla convenienza deve far riferimento anche ai costi delle procedure esecutive individuali, funzionali alla liquidazione coattiva del bene ed ai tempi processuali non brevi oltre all’incognita di realizzazione rimessa all’esito della vendita nelle previste forme giudiziali e ricordare che per legge il piano non è sottoposto ad alcuna votazione e quindi non necessita di alcuna approvazione da parte dei creditori".
Tribunale di Napoli, Volontaria Giurisdizione, sentenza del 28/10/2015

venerdì 11 dicembre 2015

Applicabilità dell'IRAP ai professionisti.

In tema  di  IRAP la Corte di Cassazione, inserendosi nel solco già tracciato dai Giudici della Consulta, ha più volte affermato che, a norma del combinato disposto degli artt. 2, comma 1°, e 3, comma  1°, lett. c), del D.Leg.vo 15 dicembre 1996, n. 446, l’esercizio delle attività di lavoro autonomo di cui al D.P.R.  22 dicembre 1986, n. 917, art. 49, comma 1°, e all’art. 53, comma 1°, del medesimo D.P.R., è  escluso  dall’applicazione dell’imposta in questione ogniqualvolta si tratti di attività non autonomamente organizzata. Il requisito dell’autonoma  organizzazione,  il  cui accertamento  spetta  al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) usufruisca in modo non occasionale di dipendenti e/o di collaboratori esterni; b) impieghi beni strumentali di rilevante valore ossia che eccedano, secondo l’id quod plerumque accidit,  il  minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza  di organizzazione.
I presupposti, dunque, che giustificano l’imposizione dell’IRAP nei confronti di un libero professionista, sono, in sintesi,  costituiti  dal  possesso  di  beni  strumentali eccedenti il minimo indispensabile  per  l'esercizio  della  professione o dall'avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui; al di fuori di queste ipotesi l’imposta in questione non trova mai ragione d’essere e la sua debenza non può essere giustificata e deve considerarsi illegittima.  
A nulla rileva, poi, che l'attività libero professionale sia contraddistinta dalla continuità. Invero, mentre l'elemento organizzativo è fisiologico alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l'attività di lavoro autonomo, ancorché connaturata dal carattere della abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un'attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui. Ma è evidente che nel caso di una attività professionale che sia svolta in assenza di elementi di organizzazione, il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto, risulterà mancante il presupposto stesso dell'imposta sulle attività produttive, per l'appunto rappresentato, secondo l'art. 2, dall'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata  diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, con la conseguente inapplicabilità dell'imposta stessa.
Secondo la Corte Costituzionale, pertanto, si può benissimo configurare un esercizio "non organizzato" dell'attività professionale, il quale, per ciò stesso, è da ritenersi al di fuori del campo di applicazione dell'imposta.
La Cassazione ha elaborato una gran mole di lavoro circa la esatta definizione del requisito dell'autonoma organizzazione; ci si riferisce, in particolar modo, alla serie di sentenze depositate in data 16/02/2007 e contraddistinte dal n. 3672 al n. 3682, in data 05/03/2007 con numeri compresi tra 5009 al 5015, in data 19/03/2007 recanti numeri dal 6500 al 6505, in data 30/03/2007 con numeri dal 7891 al 7899 e, infine, in data 02/04/2007 e contraddistinte dai numeri che vanno dal 8166 sino all'8177, che hanno rappresentato, e rappresentano tutt'ora, il perno interpretativo della materia che ci occupa ed il punto di partenza per le decisioni posteriori chiamate ad intervenire sullo stesso argomento. In esse si delinea un indirizzo interpretativo secondo il quale, fermi restando i due principi cardine sopra richiamati (impiego di beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per lo svolgimento dell'attività ed impiego in maniera non occasionale di dipendenti o collaboratori ) si ha esercizio di "attività autonomamente organizzata" soggetta ad Irap ai sensi dell'art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 quando l'attività abituale ed autonoma del contribuente dia luogo ad una struttura che potenzi ed accresca la capacità produttiva del contribuente stesso. Non risulta, invece, di ostacolo alla sussistenza dei requisiti per l'applicazione dell'Irap il fatto che l'apporto del titolare sia insostituibile in quanto consistente in un'attività riservata agli iscritti ad un albo. Ciò perchè possono benissimo ipotizzarsi autonome fasi di lavorazione (organizzazione logistica, competenze interne, distribuzione del lavoro, ricerche, relazioni preparatorie, stime preventive, eccetera) che confluiscono poi nella sintesi del prodotto finale elaborato dal professionista, cosa che configura così la debenza dell'imposta. Sempre secondo l'orientamento delineato dalle sentenze sopra richiamate, con l'espressione contenuta nella norma "pertanto sono soggetti" ad Irap "le persone fisiche esercenti arti e professioni", il legislatore non ha inteso indicare una consequenzialità necessaria, ma solo definire la platea dei soggetti che possono (e non che devono necessariamente) essere soggetti ad imposta. Ciò in quanto l'autonoma organizzazione costituisce presupposto oggettivo imprescindibile (diverso dal presupposto dalla produzione di reddito) che attribuisce all'imposta una natura reale. Concludono esse decisioni respingendo la  tesi dell'Agenzia delle Entrate secondo cui il legislatore avrebbe istituito una sorta di presunzione di esistenza del presupposto impositivo. La netta contrapposizione rispetto alle posizioni sulle quali si era arroccata l'Agenzia delle Entrate emerge, altresì, in modo netto anche nella sentenza n. 5010 del 05/03/2007, nella quale si legge che non appare condivisibile la tesi prospettata dall'Avvocatura Erariale secondo cui le due parole aggiunte (autonoma organizzazione) avrebbero solo lo scopo di  rendere più chiaro il motivo dell'esclusione dai soggetti passivi dei co.co.co.. Detta sentenza, poi, richiama apertamente il contenuto della famosa “relazione Gallo”, ripresa nella relazione ministeriale di accompagnamento al decreto delegato n. 446/1997, la quale afferma che “l'organizzazione si risolve per il suo titolare in disponibilità di beni ed in prestazioni economicamente valutabili corrispondenti alla potenzialià produttiva dell'organizzazione stessa” e giunge a concludere che “si ha esercizio di attività soggetta ad Irap ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997 quando l’attività abituale ed autonoma del contribuente dia luogo ad un’organizzazione dotata di un minimo di autonomia che potenzi ed accresca la capacità produttiva del contribuente stesso. Di guisa che l’imposta non risulta applicabile ove in concreto i mezzi personali e materiali di cui si sia avvalso il contribuente costituiscano un mero ausilio della sua attività personale , simile a quello di cui abitualmente dispongono anche soggetti esplicitamente esclusi dall’applicazione dell’Irap (collaboratori continuativi, lavoratori dipendenti)”
Si può, dunque, affermare senza tema di smentita che non è sufficiente, ai fini dell'imposizione IRAP, quella sorta di mera auto organizzazione, che, secondo l'Avvocatura erariale, sarebbe propria anche delle attività abituali che danno luogo all’applicazione dell’IVA.


giovedì 19 novembre 2015

Caduta alunno in aula responsabilità insegnante.

Nella sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha espresso il principio secondo il quale l'insegnante, per superare la presunzione di responsabilità che ex art. 2048 c.c. posta a suo carico, è tenuto a dimostrare di aver adottato preventivamente tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi della serie causale che ha condotto all'evento lesivo e che, nonostante ciò, il fatto dannoso, per la sua repentinità ed imprevedibilità, ha impedito un tempestivo ed efficace intervento. 
Pertanto, laddove l'insegnante non riesce a fornire la prova suddetta, il Ministero è chiamato a risarcire l'alunno. 
Nel caso in questione, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto sussistere la responsabilità dell'insegnante poiché questa si era assentata senza affidare la custodia della classe a bidelli o ad altri soggetti in sua sostituzione ed in quanto l'incidente occorso all'alunno, caduto perché una compagna di classe gli aveva sfilatola sedia, deve essere considerato quale evento prevedibile.
La pronuncia è stata motivata come segue.
"Occorre muovere dalla considerazione che presupposto della responsabilità dell’insegnante per il danno subito dall’allievo, nonché fondamento del dovere di vigilanza sul medesimo, è la circostanza che costui gli sia stato affidato, sicché chi agisce per ottenere il risarcimento deve dimostrare che l’èvento dannoso si è verificato nel tempo in cui l’alunno era sottoposto alla sorveglianza del docente, restando indifferente che venga invocata la responsabilità contrattuale per negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza o la responsabilità extracontrattuale per omissione delle cautele necessarie (cfr. Cass. civ. 16 febbraio 2015, n. 3081; Cass. civ. 10 ottobre 2008, n. 24997). A ciò aggiungasi, con particolare riguardo alla prova liberatoria richiesta dall’art. 2048 cod. civ., che la giurisprudenza di questa Corte considera, sì, dirimente la dimostrazione, da parte dell’insegnante, dell’esercizio della vigilanza nella misura dovuta nonché della imprevedibilità e repentinità in concreto dell’azione dannosa, ma costantemente avverte che, ove manchino le più elementari misure organizzative per mantenere la disciplina tra gli allievi, non si può neppure invocare l’imprevedibilità del fatto. Ne deriva che questa ha portata liberatoria solo nell’ipotesi in cui non sia stato possibile evitare l’evento nonostante l’approntamento di un sistema di vigilanza adeguato alle circostanze (cfr. Cass. civ. 22 aprile 2009, n. 9542; Cass. civ. 18 aprile 2001, n. 5668; Cass. civ. 21 agosto 1997, n. 7821; Cass. civ. 24 febbraio 1997, n. 1683; Cass. civ. 22 gennaio 1990, n. 318). 3 Venendo al caso di specie, la Corte territoriale si è segnatamente occupata della dinamica dell’incidente ritenendo, da un lato, indimostrato che la caduta di S. M. fosse stata determinata dalla sottrazione, ad opera di D.M., della sedia sulla quale stava per sedersi (come sostenuto dagli attori), piuttosto che dalla contesa della medesima sedia tra lui e la compagna (come dedotto dai convenuti); e qualificando, dall’altro, in termini di imprevedibilità e repentinità l’iniziativa in tesi assunta dall’allieva, avvenuta in un’aula ove era comunque presente il bidello. Proprio quest’ultima notazione disvela tuttavia l’insufficienza dell’approccio del giudice di merito con le problematiche sottese al superamento della presunzione della responsabilità del precettore, avendo il decidente sostanzialmente ignorato l’assoluta centralità dell’assolvimento, da parte dello stesso, dell’obbligo di vigilanza nella misura dovuta. Non può invero sfuggire che, per poter ritenere raggiunta la prova liberatoria nei termini imposti dall’art. 2048 cod. civ., era necessario indagare sulle condizioni dell’affidamento dei discenti, impegnati peraltro in un’attività extracurricolare, alla sorveglianza dell’ausiliario, a partire dalla eventuale adibizione di questi anche ad altre incombenze. La mancanza di una adeguata verifica in ordine all’approntamento, in via preventiva, di cautele idonee, secondo una valutazione ex ante, a scongiurare situazioni di pericolo, vulnera in maniera irredimibile la scelta decisoria adottata, tanto più che, a ben vedere, la caduta conseguente alla contesa di una sedia tra due ragazzini è accadimento la cui qualificazione in termini di repentinità, imprevedibilità ed evitabilità non appare del tutto scontata. Ne deriva che, ragionando secondo gli schemi delineati negli interventi nomofilattici del giudice di legittimità, la negativa valutazione in ordine alla dinamica dell’incidente posta a base della pretesa azionata potrebbe risultare sostanzialmente neutra ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’insegnante al quale gli allievi erano stati affidati".
Cass. Civ., Sez. III, 13/11/2015, n. 23202

mercoledì 18 novembre 2015

Responsabilità professionale avvocato.

Le obbligazioni inerenti l'esercizio di un'attività professionale sono pacificamente considerate, sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza, obbligazioni di mezzi e non di risultato; in buona sostanza il professionista,  nel momento in cui assume l'incarico, si obbliga a prestare la propria opera in vista del raggiungimento di un determinato risultato senza accollarsi, invece, alcun obbligo in ordine al conseguimento del medesimo.
La natura dell’obbligazione, come appena descritta, si ripercuote inevitabilmente sui criteri alla stregua dei quali dovrà essere valutato l’eventuale inadempimento; il professionista, infatti, è tenuto a rispondere non già per il mancato raggiungimento del risultato sperato dal creditore, bensì solo nel caso cui abbia violato i doveri inerenti allo svolgimento della propria attività professionale, ed in particolare quel dovere di diligenza media che il secondo comma dell’art. 1176 c.c. gli impone.
Con specifico riferimento alla responsabilità professionale dell’avvocato, la consolidata giurisprudenza della Cassazione (ex multis Cass. Civ., 9 giugno 2004, n. 10966; Cass. Civ., 27 marzo 2006, n. 6967; Cass. Civ., sentenza 26 aprile 2010, n. 9917; Cass. Civ., sentenza 5 febbraio 2013, n. 2638) ha precisato che il riconoscimento della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita. Il cliente che lamenta l’inadempimento, e nel contempo invoca il risarcimento, è tenuto, quindi, a provare in termini probabilistici che senza la negligenza e/o l'imperizia del legale, il risultato voluto sarebbe stato conseguito (in tal senso si esprime anche Cass. Civ., sentenza 10 dicembre 2012, n. 22376).
Tale orientamento è stato recentemente confermato dai Giudici di legittimità, secondo i quali “la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell'attività dell'avvocato, l'affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita; tale giudizio, da compiere sulla base di una valutazione necessariamente probabilistica, è riservato al giudice di merito, con decisione non sindacabile da questa Corte se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici” (Cass. Civ., Sez. III, sentenza 13/02/2014 n. 3355).
In ordine alla responsabilità del professionista, poi, la Corte nella sentenza appena menzionata, oltre a richiamare il proprio consolidato orientamento in materia precisa che “nelle cause di responsabilità professionale nei confronti degli avvocati, la motivazione del giudice di merito in ordine alla valutazione prognostica circa il probabile esito dell'azione giudiziale che è stata malamente intrapresa o proseguita è una valutazione in diritto, fondata su di una previsione probabilistica di contenuto tecnico giuridico”
Grava quindi sul cliente che lamenti l’inadempimento da parte del professionista alla propria obbligazione, l'onere di fornire la prova, supportata da idonei dati obiettivi, in base alla quale il Giudice è chiamato a valutare se, in relazione alla natura del caso concreto, l'attività svolta dal professionista possa essere giudicata sufficiente o meno (Cass. Civ., sentenza 18 aprile 2007, n. 9238). Egli, pertanto, sarà tenuto a provare non solo di aver subito un danno, ma anche che questo è stato causato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè dalla negligente prestazione professionale (Cass. Civ., sentenza 27 maggio 2009, n. 12354).
Ne deriva così una forma di responsabilità che sfugge, in parte, alle normali regole della responsabilità contrattuale, per far valere la quale il creditore può limitarsi alla prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, allegando l’inadempimento della controparte; sarà poi il debitore convenuto a dover fornire la prova dall'avvenuto adempimento o comunque di un fatto estintivo del diritto fatto valere in giudizio. Nel caso di responsabilità professionale, per il creditore non è sufficiente allegare un generico inadempimento, fonte di danno, occorre, altresì, che lo stesso fornisca la prova del nesso causale tra il danno e l’inadeguatezza della condotta professionale del prestatore d’opera intellettuale.
Tale peculiarità è conseguenza proprio della natura stessa della prestazione professionale che, come detto, è prestazione di mezzi e non di risultato.

martedì 17 novembre 2015

Agevolazioni fiscali prima casa immobile di lusso superficie.

La Corte di Cassazione con una recente sentenza dello scorso 7 ottobre ha ribadito il proprio orientamento consolidato in tema di requisiti per poter usufruire delle agevolazioni prima casa.
Hanno, infatti, sostenuto i Giudici di legittimità che "in materia di imposta di registro, ipotecarie o catastali, per stabilire se un'abitazione sia di lusso e, quindi non possa essere ammessa a godere dei benefici previsti per l'acquisto della prima casa, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, la sua superficie utile, che deve essere complessivamente superiore a 240 mq, va calcolata secondo quanto previsto dal D.M. Lavori Pubblici n. 1072 del 1969, e dunque determinata in base a quella che, dall'estensione globale riportata nell'atto di acquisto sottoposto all'imposta, residua una volta detratta la superficie di balconi, terrazze, cantine, soffitte, scale e del posto macchina".
Nello specifico, il superamento del limite dei 240 mq comporto la perdita delle agevolazioni in questione; ai fini del computo, tuttavia, non devono essere considerati i vani accessori, come quelli riportati nella massima.
Cass. Civ., Sez. V, 07/10/2015 n. 20031.

giovedì 5 novembre 2015

Il professionista può legittimamente erogare prestazioni a parenti ed amici a titolo gratuito.

La Cassazione, con la sentenza n. 21972 depositata il 28 ottobre 2015, ha stabilito che il contribuente è legittimato a prestare servizi professionali a titolo gratuito ad amici e parenti, senza che il fisco possa inventare compensi e redditi mai percepiti.
Gli ermellini hanno rigettato il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, la quale aveva proposto ricorso per Cassazione avverso la decisione con cui la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva ritenuto illegittimo l'accertamento nei confronti di un consulente fiscale che non aveva emesso fatture a 72 clienti, a favore dei quali aveva reso prestazioni a titolo gratuito stante i rapporti di parentela od amicizia tra loro. 
L'Agenzia delle Entrate, sul presupposto che fosse impossibile effettuare prestazioni senza ricevere compenso alcuno, aveva vinto in primo grado, per poi veder la decisione ribaltata dalla CTR, sul presupposto che, a fronte della corretta contabilità tenuta dal contribuente, lo stesso, limitatosi unicamente all'invio telematico di persone fisiche socie di società sue clienti, ben poteva svolgere simile attività ai fini dell'incremento della clientela.
La Cassazione ha confermato la pronuncia di secondo grado, ritenendo possibile "in considerazione dei rapporti di parentela e di amicizia con gli stessi clienti, nonché del fatto che il 70% di tali soggetti risultano soci di società di persone, la cui contabilità è affidata alle cure del contribuente, per cui ogni eventuale compenso rientra in quello già corrisposto dalla società di appartenenza (e non è contestato che dette società fossero clienti del professionista e che le stesse non rientrassero nell'elenco, individuato dai verificatori, dei soggetti "non paganti") e della circostanza, accertata oltre che pacifica, che l'attività svolta in loro favore riguardava soltanto l'invio telematico delle dichiarazioni dei redditi ed era finalizzata  all'incremento della clientela, cosicché la semplicità della prestazione in sé rende verosimile l'assunto del contribuente circa la sua gratuità.
Corte di Cassazione sentenza 28/10/2015 n. 21972

venerdì 30 ottobre 2015

Scioglimento comunione assegnazione ed attribuzione quote.

L'orientamento ormai consolidatosi della giurisprudenza sull'art. 729 c.c., non dà al criterio dell'estrazione a sorte carattere assoluto bensì soltanto tendenziale e, come tale, può essere agevolmente superato quando vi siano ragioni che lo richiedano.
La Suprema Corte ha, invero, affermato che “in tema di scioglimento della comunione relativa ad un immobile comodamente divisibile, il giudice di merito gode di un'ampia discrezionalità nell'esercizio del potere di attribuzione delle porzioni ai condividenti, salvo l'obbligo di darne conto in motivazione; nell'esercizio di tale potere discrezionale, egli può considerare anche gli interessi individuali delle parti aventi ad oggetto beni estranei alla comunione - confrontandoli con gli altri interessi rilevanti nella specie - allo scopo di compiere la scelta più appropriata”  (Cassazione Civ., Sez. II, Sentenza 15/10/2010 n. 21319).
Il principio è stato poi ribadito da una successiva decisione in cui si ribadisce che “il criterio dell'estrazione a sorte previsto dall'art. 729 cod. civ. nel caso di uguaglianza di quote a garanzia della trasparenza delle operazioni divisionali contro ogni possibile favoritismo - applicabile anche nell'ipotesi di divisione dei beni comuni, in virtù del rinvio recettizio di cui all'art. 1116 cod. civ. - non ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale, ed è pertanto derogabile in base a valutazioni prettamente discrezionali, che possono attenere non soltanto a ragioni oggettive legate alla condizione funzionale ed economica dei beni, quale risulterebbe dall'applicazione della regola del sorteggio, ma anche a fattori soggettivi di apprezzabile e comprovata opportunità, la cui valutazione è sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione” (Cass. Civ., Sez. II, sentenza 27/12/2012 n. 23930). 
Ancor più recentemente tali argomenti sono stati rafforzati con l'assunto che “il criterio dell'estrazione a sorte previsto, nel caso di uguaglianza di quote, dall'art. 729 c.c. a garanzia della trasparenza delle operazioni divisionali contro ogni possibile favoritismo, non ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale, essendo pertanto derogabile in base a valutazioni prettamente discrezionali, che possono attenere non soltanto a ragioni oggettive, legate alla condizione funzionale ed economica dei beni, ma anche a fattori soggettivi di apprezzabile e comprovata opportunità, la cui valutazione è sindacabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo del difetto di motivazione, ad esempio in presenza di documenti risalenti a tentativi di definizione bonaria della controversia” (Cass. Civ., Sez. II, sentenza  13/03/2014 n. 5866) .
Sulla base dei principi appena enunciati, si può, quindi, sostenere senza tema di smentita che il principio posto dall'art. 729 c.c. non ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale, ed è, pertanto, derogabile, in presenza di valide ragioni, in base a valutazioni prettamente discrezionali, insindacabili in sede di legittimità salvo che sotto il profilo dell'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.