venerdì 10 ottobre 2025

L'esecutività provvisoria delle sentenze costitutive e il rapporto di interdipendenza tra i diversi capi di una pronuncia giudiziale.

La vicenda processuale trae origine da un'opposizione a precetto proposta da un coerede avverso l'intimazione di pagamento notificatagli da altro coerede. Il cuore della controversia risiede nell'eccezione sollevata dall'opponente circa la natura non esecutiva della sentenza costitutiva per i capi condannatori dipendenti; la questione si inserisce nel più ampio dibattito sulla portata dell'articolo 282 c.p.c., che stabilisce la provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado.

Il Tribunale romano affronta preliminarmente la questione della corretta qualificazione dell'azione proposta dall'opponente, richiamando il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il giudice ha il potere dovere di qualificare giuridicamente l'azione, la pronuncia chiarisce la distinzione fondamentale tra opposizione all'esecuzione ex articolo 615 c.p.c. e opposizione agli atti esecutivi ex articolo 617 c.p.c.. La differenziazione si basa sull'oggetto delle contestazioni: quando si contesta il diritto del creditore a procedere ad esecuzione, si configura l'opposizione all'esecuzione; quando invece le contestazioni riguardano le modalità con cui è stata introdotta l'esecuzione, trova applicazione l'opposizione agli atti esecutivi. Nel caso di specie, l'eccezione di inesistenza di un valido titolo esecutivo ha condotto il giudice a qualificare correttamente la domanda come opposizione all'esecuzione.

La questione centrale affrontata dalla sentenza riguarda l'applicabilità del principio di esecutività provvisoria alle sentenze costitutive. Il Tribunale richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la generale provvisoria esecutorietà delle sentenze di primo grado trova un limite nelle pronunce che, per loro natura, non tollerano tale anticipazione degli effetti. La questione centrale affrontata dalla sentenza riguarda l'applicabilità del principio di esecutività provvisoria alle sentenze costitutive; il Tribunale richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la generale provvisoria esecutorietà delle sentenze di primo grado trova un limite nelle pronunce che, per loro natura, non tollerano tale anticipazione degli effetti. La giurisprudenza di legittimità ha elaborato una distinzione fondamentale, cristallizzata nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 4059 del 2010, secondo cui l'esecutività provvisoria delle sentenze costitutive è limitata ai capi della decisione che sono compatibili con la produzione dell'effetto costitutivo in un momento successivo, e non si estende a quelli che si collocano in rapporto di stretta interdipendenza con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale.

Il giudice romano osserva che l'accertamento del diritto in capo all'opposta di vedersi riconosciuto l'indennizzo spettante all'erede pretermesso dei rendimenti relativi alla gestione degli immobili caduti in successione non ha alcun rapporto di stretta interdipendenza con la parte costitutiva della pronuncia relativa alla assegnazione dei beni. Questa valutazione si fonda su una considerazione sostanziale di notevole rilevanza: l'eventuale riforma della sentenza nella sua parte costitutiva non avrebbe potuto influire sulla condanna al pagamento dei rendimenti, restando comunque dovute le somme destinate a ristorare l'erede pretermesso. Si configura, pertanto, un rapporto di mera dipendenza tra il capo costitutivo e quello condannatorio, che rende quest'ultimo immediatamente esecutivo.

La pronuncia del Tribunale di Roma in esame si inserisce in un orientamento giurisprudenziale che tende a valorizzare l'autonomia sostanziale dei diversi diritti azionati, anche quando questi trovino riconoscimento in un'unica pronuncia giudiziale. L'approccio seguito dal giudice romano dimostra come l'applicazione meccanica del principio di non esecutività delle sentenze costitutive debba cedere il passo a una valutazione sostanziale del rapporto intercorrente tra i diversi capi di decisione. Particolarmente significativa appare la considerazione secondo cui il diritto dell'erede pretermesso ai rendimenti immobiliari presenta caratteri di autonomia rispetto alla divisione ereditaria propriamente detta. Tale autonomia giustifica l'immediata esecutività della relativa condanna, indipendentemente dalla stabilità della pronuncia costitutiva sull'assegnazione dei beni.

Tribunale Roma sentenza n. 13738/2023





 

venerdì 3 ottobre 2025

La tutela dei marchi deboli.

 

La pronuncia del Tribunale di Roma n. 18215 del 28/11/2024 approfondisce la materia della contraffazione del marchio d'impresa, con particolare riferimento alla distinzione tra marchi "forti" e "deboli" e ai criteri di valutazione della confondibilità tra segni distintivi.

Il Tribunale romano ha ribadito i principi consolidati dalla giurisprudenza di legittimità e della Corte di Giustizia dell'Unione Europea in materia di valutazione della confondibilità tra marchi. Come evidenziato nella sentenza, "l'accertamento della confondibilità dei marchi in conflitto deve compiersi in via globale e sintetica, avendo riguardo all'insieme dei loro elementi salienti grafici, visivi e fonetici, intendendosi con quest'ultimo termine tutti gli effetti acustici (cioè auditivi, fonici) delle espressioni usate, in relazione al normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto è destinato". La valutazione del rischio di confusione deve essere condotta globalmente, considerando tutti i fattori pertinenti del caso secondo un criterio di interdipendenza tra la somiglianza dei segni e quella dei prodotti o servizi.

Il Tribunale ha chiarito che i cosiddetti marchi deboli sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto, dal momento che la fantasia che li ha concepiti non è andata oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento del prodotto, ovvero l'uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo. Nel caso in esame la componente figurativa del marchio riproduce, inoltre, in modo fedele un peperoncino, prodotto di uso comune nella ristorazione e, in generale, nel settore alimentare, non presentando varianti essenziali alla natura della bacca ed è, pertanto, privo di elementi di fantasia e di una forte efficacia distintiva.

La qualificazione di un marchio come "debole" comporta importanti conseguenze sul piano della tutela; infatti per essi devono adottarsi criteri meno rigorosi rispetto a quelli forti, essendo la protezione dei primi limitata alle parti dotate di originalità.

Il Tribunale ha ribadito che l'azione di contraffazione del marchio d'impresa ha natura reale e tutela il diritto assoluto all'uso esclusivo del segno come bene autonomo, sulla base del riscontro della confondibilità dei marchi, prescindendo dall'accertamento della effettiva confondibilità tra prodotti e delle concrete modalità di uso del segno.

La sentenza del Tribunale di Roma offre importanti spunti di riflessione sulla tutela dei marchi deboli nel diritto italiano. La pronuncia conferma l'orientamento consolidato secondo cui la qualificazione di un marchio come "debole" non ne pregiudica la validità, ma ne limita l'intensità della tutela, richiedendo per la configurazione della contraffazione una riproduzione sostanzialmente pedissequa del segno.

La decisione evidenzia inoltre l'importanza di una valutazione globale e sintetica della confondibilità tra marchi, che deve tenere conto non solo degli elementi denominativi comuni, ma anche delle differenze grafiche, cromatiche e figurative che possono escludere il rischio di confusione per il pubblico di riferimento.

Particolarmente significativo appare il richiamo alla giurisprudenza eurounitaria e ai principi elaborati dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che confermano la necessità di un approccio armonizzato nella valutazione della confondibilità tra marchi, basato sulla percezione del consumatore medio e sull'impressione complessiva prodotta dai segni in conflitto.

In definitiva, la sentenza del Tribunale di Roma rappresenta un contributo significativo alla sistematizzazione dei principi in materia di tutela dei marchi deboli, confermando la necessità di un approccio equilibrato che, pur garantendo la protezione dei diritti di privativa industriale, non consenta un'estensione eccessiva della tutela a scapito della libera concorrenza e dell'uso legittimo di segni di comune utilizzo nel settore di riferimento.

Tribunale Roma Sentenza n. 18215 2024

venerdì 19 settembre 2025

Denuncia dei vizi dell'appalto e opposizione a decreto ingiuntivo.

La pronuncia del Tribunale Civile di Roma in esame offre l'occasione per un approfondimento sistematico sulla disciplina della denuncia dei vizi dell'opera nel contratto d'appalto, istituto di fondamentale importanza nella prassi negoziale che continua a generare significative controversie interpretative e applicative.

 La garanzia per difformità e vizi dell'opera trova la sua disciplina principale nell'articolo 1667 del codice civile, norma che stabilisce un regime speciale di responsabilità dell'appaltatore caratterizzato da termini particolarmente rigorosi. La disposizione prevede che l'appaltatore sia tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell'opera, salvo che il committente abbia accettato l'opera conoscendo i vizi o quando questi fossero riconoscibili, purché non siano stati dolosamente occultati dall'appaltatore. Il secondo comma della norma introduce l'elemento più critico dell'intera disciplina: l'obbligo per il committente di denunciare le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta, a pena di decadenza. Tale denuncia non è necessaria soltanto quando l'appaltatore abbia riconosciuto le difformità o i vizi ovvero li abbia occultati. Il terzo comma completa il quadro stabilendo che l'azione contro l'appaltatore si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell'opera, precisando tuttavia che il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna.

La sentenza in esame presenta un caso paradigmatico dell'applicazione rigorosa della disciplina sulla denuncia dei vizi. Il Tribunale di Roma si è trovato a decidere un'opposizione a decreto ingiuntivo in cui l'opponente lamentava vizi delle opere di falegnameria eseguite dalla società convenuta, eccependo inoltre responsabilità di un terzo soggetto per le opere murarie.

Il giudice ha preliminarmente chiarito la natura giuridica dell'opposizione ex articolo 645 del codice di procedura civile, richiamando il consolidato orientamento delle Sezioni Unite secondo cui tale procedimento non introduce un giudizio autonomo ma costituisce una fase del giudizio già pendente a seguito del ricorso per decreto ingiuntivo. Questa precisazione risulta fondamentale per comprendere la distribuzione dell'onere probatorio: il creditore-opposto mantiene la posizione sostanziale di attore e deve provare tutti i fatti costitutivi del diritto vantato, mentre il debitore-opponente deve dimostrare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del credito.

Il cuore della decisione risiede nell'analisi dell'eccezione di decadenza formulata dalla convenuta. Il Tribunale ha rigorosamente applicato i principi consolidati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'onere della prova circa la tempestiva effettuazione della denuncia ricade interamente sul committente. Nel caso romano, l'analisi delle comunicazioni prodotte dall'opponente ha rivelato l'inadeguatezza delle stesse ai fini del superamento dell'eccezione di decadenza. Le email del 26 aprile 2019 non provenivano dall'opponente né erano indirizzate alla convenuta; analogamente, la comunicazione del 22 maggio 2019 risultava inviata da un soggetto terzo. La mail del 26 aprile 2019, pur essendo indirizzata per conoscenza alla convenuta, era stata trasmessa dopo aver ricevuto la messa in mora e non conteneva alcuna denuncia specifica dei vizi, limitandosi a formulare richieste risarcitorie.

La giurisprudenza ha progressivamente delineato i requisiti che deve possedere una denuncia per essere considerata efficace ai fini dell'articolo 1667 del codice civile, essa deve essere sufficientemente specifica e circostanziata, non potendo considerarsi idonea una contestazione meramente generica. Il Tribunale di Roma ha richiamato espressamente il principio secondo cui, sebbene la denuncia sia un atto a forma libera, non è ammissibile una contestazione dell'opera del tutto generica, essendo invece necessario specificare di quali vizi si tratti. Questa esigenza di specificità risponde alla ratio della norma, che mira a consentire all'appaltatore di valutare tempestivamente la fondatezza delle contestazioni e di adottare le opportune misure correttive. L'articolo 1667 del codice civile prevede due ipotesi in cui la denuncia non è necessaria: quando l'appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi e quando li ha occultati.

La decadenza dalla garanzia per vizi comporta conseguenze particolarmente severe per il committente. Come chiarito dal Tribunale di Roma nella sentenza in esame, la decadenza rende superfluo l'esame delle ulteriori questioni relative all'esistenza e alla gravità dei vizi, comportando automaticamente il rigetto dell'opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo.

La sentenza del Tribunale di Roma n. 15647/2023 conferma l'orientamento rigoroso della giurisprudenza nell'applicazione della disciplina sulla denuncia dei vizi dell'opera. L'istituto, pur rappresentando una tutela fondamentale per il committente, è caratterizzato da termini particolarmente severi che richiedono la massima attenzione nella prassi contrattuale. La ratio della norma risiede nell'esigenza di contemperare la tutela del committente con l'interesse dell'appaltatore a un accertamento sollecito delle eventuali contestazioni. Tuttavia, l'applicazione rigorosa dei termini di decadenza può comportare conseguenze particolarmente severe per il committente che non osservi scrupolosamente gli adempimenti previsti dalla legge.



venerdì 12 settembre 2025

Usufrutto generale e quota di riserva, natura di legato o di erede.

 La complessa interazione tra il lascito testamentario avente ad oggetto l'usufrutto generale e la tutela della quota di riserva spettante ai legittimari, in questo caso il coniuge superstite, rappresenta una questione delicata poiché il sistema successorio italiano si fonda sull'equilibrio tra la libertà testamentaria e la tutela dei legittimari; l'analisi delle sentenze in esame offre l'opportunità di approfondire le questioni interpretative che emergono quando le disposizioni testamentarie si confrontano con i diritti inderogabili dei legittimari.

Il caso sottoposto all'esame dei Giudici romani presenta una disposizione testamentaria di una certa complessità, posto che il testatore aveva disposto l'attribuzione dell'usufruttuario generale sui beni ereditari, suscitando interrogativi sulla natura giuridica di tale disposizione e sulla sua compatibilità con la quota di riserva del coniuge superstite.

Il Tribunale di Roma, accogliendo la domanda attrice e richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 13310/2002), ha affermato che l'attribuzione dell'usufrutto generale non costituisce assegnazione di legato ma istituzione di erede, anche ai sensi dell'art. 588 c.c., in ragione del quale sono attributive della qualità di erede le disposizioni testamentaria, a prescindere dalle espressioni o denominazioni utilizzate dal testatore, che comprendono l'universalità di beni o una parte di essi considerati come quota dell'asse ereditario, mentre ogni altra disposizione a titolo particolare attribuisce la qualità di legatario.

A sua volta la Corte di Appello ha rigettato il gravame confermando la tesi sostenuta nella sentenza di primo grado siccome supportata dal contenuto dell'art. 1010 c.c., che prevede l'onere per l'usufruttuario pure del pagamento del capitale; disciplina del tutto diversa da quella del legatario, di norma non tenuto a rispondere dei debiti.

Il Collegio romano ha altresì affermato che nella fattispecie non si configura un legato in sostituzione di legittima, considerato che dal tenore del testamento non si ravvisa la volontà né di istituire un legato né di escludere il coniuge dalla vocazione ereditaria.

L'evoluzione giurisprudenziale in materia di usufruttuario generale e quota di riserva testimonia la complessità di un sistema successorio che deve bilanciare esigenze spesso contrapposte: la libertà testamentaria, la tutela dei legittimari e la certezza dei rapporti giuridici. Le sentenze esaminate dimostrano come sia necessario un approccio casistico, attento alle specificità di ogni fattispecie concreta, che sappia coniugare il rigore tecnico-giuridico con la comprensione delle dinamiche familiari e patrimoniali sottostanti.

Tribunale Roma sentenza n. 23461 2012

Corte di Appello Roma sentenza n. 3906 2019 


martedì 2 settembre 2025

La Responsabilità dei Soci e del Liquidatore nelle Società Cancellate dal Registro delle Imprese

L'ordinanza del Tribunale di Tivoli del 18 aprile 2016 offre un interessante spaccato delle problematiche giuridiche che emergono quando i creditori di una società cancellata dal registro delle imprese tentano di recuperare i propri crediti agendo nei confronti dei soci e del liquidatore. La vicenda si inquadra nel contesto della riforma del diritto societario attuata dal decreto legislativo n. 6 del 2003, che ha profondamente modificato gli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese. 

Come chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione con le sentenze nn. 6070, 6071 e 6072 del 12 marzo 2013, la cancellazione dal registro delle imprese determina l'estinzione definitiva della società, ma non comporta la scomparsa dei rapporti giuridici non definiti, che si trasferiscono ai soci attraverso un peculiare fenomeno successorio. L'articolo 2495 del codice civile, nella sua formulazione attuale, stabilisce che "ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi".

Il Tribunale di Tivoli ha correttamente applicato le norme sulla prescrizione, rilevando che il credito risarcitorio era prescritto sia secondo l'articolo 2947 del codice civile (prescrizione quinquennale per il risarcimento del danno da fatto illecito) sia secondo l'articolo 2949 del codice civile (prescrizione quinquennale per l'azione di responsabilità dei creditori sociali verso gli amministratori). La decisione evidenzia un aspetto procedurale importante: la notifica del precetto alla società nel 2012, ricevuta dal liquidatore, non era idonea a interrompere la prescrizione dell'azione di responsabilità nei confronti dei soci e del liquidatore, trattandosi di titoli di responsabilità diversi e di soggetti diversi rispetto al debitore originario.

L'ordinanza tocca uno dei punti più delicati della materia: la natura e i limiti della responsabilità dei soci per i debiti della società estinta. Come chiarito dalle Sezioni Unite, si determina un fenomeno di tipo successorio in virtù del quale le obbligazioni si trasferiscono ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione. Il Tribunale di Tivoli ha correttamente osservato che i ricorrenti non avevano provato che i soci avessero riscosso un attivo nella liquidazione. Anzi, il bilancio di liquidazione prodotto portava ad escludere tale circostanza. Questo aspetto è cruciale perché, come confermato dalla giurisprudenza più recente, il creditore deve provare l'avvenuta distribuzione dell'attivo e la conseguente riscossione di una quota di esso da parte del socio in base al bilancio finale di liquidazione. Tuttavia, l'evoluzione giurisprudenziale successiva ha chiarito che la mancata percezione di somme non esclude automaticamente la legittimazione passiva dei soci, come evidenziato dalla Cassazione civile con ordinanza n. 1249 del 2025, che ha precisato come i creditori possano avere comunque interesse all'accertamento del proprio diritto in relazione a possibili sopravvenienze attive o beni non contemplati nel bilancio.

Particolarmente interessante è l'analisi che il Tribunale dedica alla responsabilità del liquidatore ex articoli 2043 e 2491 del codice civile. Il giudice ha rilevato l'assenza di allegazioni specifiche circa le violazioni eventualmente poste in essere nella liquidazione, sottolineando che i ricorrenti si erano limitati a richiamare genericamente la responsabilità del liquidatore senza provare l'esistenza di utili distribuiti senza accantonare le somme necessarie per i creditori. La la responsabilità del liquidatore ha natura aquiliana e richiede pertanto la prova di specifiche condotte illecite. 

L'ordinanza del Tribunale di Tivoli, pur risalente al 2016, anticipa molte delle questioni che la giurisprudenza di legittimità ha successivamente affrontato e risolto. In particolare, la distinzione tra legittimazione processuale e responsabilità sostanziale dei soci è stata chiarita dalla Cassazione civile con ordinanza n. 6662 del 2025, che ha precisato come la legittimazione processuale degli ex soci non sia condizionata dall'effettiva percezione di somme in sede di riparto dell'attivo sociale. Analogamente, la questione dell'interesse ad agire è stata approfondita dalla Cassazione civile con ordinanza n. 17734 del 2025, che ha chiarito come tale interesse sussista indipendentemente dalla prova della percezione di somme da parte degli ex soci, avendo natura dinamica e potendo sussistere anche in assenza di utilità immediatamente conseguibili.

L'ordinanza del Tribunale di Tivoli rappresenta un esempio paradigmatico delle difficoltà che i creditori incontrano nel tentativo di recuperare i propri crediti verso società estinte. La decisione evidenzia l'importanza di una corretta impostazione dell'azione, sia sotto il profilo sostanziale che processuale, con particolare attenzione ad una corretta allegazione e prova dei presupposti dell'azione, sia nei confronti dei soci che del liquidatore.

Ordinanza Tribunale di Tivoli 18/04/2016



lunedì 4 agosto 2025

Contratto preliminare, iscrizioni pregiudizievoli non dichiarate e diritto al recesso.

La sentenza del Tribunale di Roma n. 8285/2023 offre un interessante spunto di riflessione sui delicati equilibri che governano i contratti preliminari di compravendita immobiliare, con particolare riferimento alla disciplina della caparra confirmatoria e agli obblighi di correttezza e buona fede che caratterizzano il rapporto tra le parti. Il caso in esame evidenzia come l'omessa comunicazione di vincoli reali gravanti sull'immobile possa configurare un inadempimento di gravità tale da legittimare il recesso del promissario acquirente con diritto alla restituzione del doppio della caparra. 

La disciplina della caparra confirmatoria trova la sua fonte primaria nell'art. 1385 del codice civile, che stabilisce un meccanismo di tutela bilaterale per i contraenti. Secondo tale disposizione, in caso di inadempimento della parte che ha ricevuto la caparra, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della somma versata, realizzando così una forma di liquidazione convenzionale del danno che esonera il creditore dall'onere di provarne l'entità. Il fondamento di tale tutela risiede negli obblighi generali di correttezza e buona fede che permeano l'intero rapporto contrattuale, codificati negli artt. 1175 e 1375 del codice civile. Tali principi assumono particolare rilevanza nella fase delle trattative e nell'esecuzione del contratto preliminare, imponendo alle parti un dovere di lealtà e trasparenza che si estende alla comunicazione di tutte le circostanze rilevanti per la valutazione dell'affare.

La fattispecie esaminata dal Tribunale di Roma presenta un profilo di particolare interesse sotto il profilo dell'inadempimento contrattuale. I promittenti venditori avevano omesso di comunicare al promissario acquirente l'esistenza di un'ipoteca legale gravante sull'immobile, circostanza che emergeva chiaramente dalla documentazione allegata al modulo di proposta d'acquisto, dove nella sezione relativa alle "iscrizioni/trascrizioni pregiudizievoli" non veniva indicata alcuna formalità. Il Tribunale ha correttamente inquadrato tale comportamento come violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l'esistenza di vincoli reali non dichiarati dal promittente venditore e non conosciuti dal promissario compratore legittima quest'ultimo all'attivazione dei rimedi a tutela della propria posizione. In particolare, la Corte di Cassazione ha chiarito che l'art. 1482 del codice civile, pur riferendosi al contratto definitivo di vendita, trova applicazione analogica anche al contratto preliminare, conferendo al promissario acquirente la facoltà alternativa di ottenere la liberazione dei pesi gravanti sul bene o di agire per la risoluzione del contratto. Pertanto quando il promittente venditore dichiara espressamente che l'immobile viene venduto libero da pesi, oneri, vincoli, ipoteche, privilegi anche fiscali, trascrizioni di pregiudizio, diritti di prelazione e imposte arretrate, ma successivamente risulta che il bene è gravato da iscrizioni ipotecarie non dichiarate, si configura un inadempimento contrattuale di non scarsa importanza che legittima il promissario acquirente ad esercitare il diritto di recesso.

Un aspetto centrale della decisione riguarda la valutazione della gravità dell'inadempimento, elemento essenziale per l'applicazione della disciplina di cui all'art. 1385 c.c. Il Tribunale ha chiarito che non è sufficiente il semplice ritardo o l'inadempimento di scarsa importanza, dovendo sussistere un inadempimento che legittimi la domanda di risoluzione sia sotto il profilo dell'imputabilità che della gravità. Nel caso di specie, la gravità dell'inadempimento è stata ravvisata non solo nell'omessa comunicazione dell'ipoteca, ma anche nella circostanza che, nonostante le rassicurazioni fornite dai notai incaricati circa la possibilità di risolvere la questione, l'ipoteca risultava ancora iscritta sui registri immobiliari a distanza di circa cinque mesi dalla stipulazione di un successivo atto di compravendita con altro acquirente. In buona sostanza costituisce inadempimento di non scarsa importanza la mancata comunicazione da parte del promittente venditore dell'esistenza di iscrizioni pregiudizievoli gravanti sull'immobile, quali ipoteca giudiziale e sequestro conservativo, anche quando tali formalità risultino apposte da tempo sui registri immobiliari, sottolineando come il canone di correttezza imponga la comunicazione di tali obiettive risultanze indipendentemente dall'esistenza di ragionevoli probabilità di pervenire alla loro cancellazione.

Un ulteriore profilo di interesse della sentenza riguarda il trattamento delle irregolarità urbanistiche dell'immobile, le quali assumono rilevanza diversa a seconda del grado di conoscenza delle parti e dell'incidenza sull'interesse contrattuale. Una recente sentenza della giurisprudenza di merito (Tribunale Castrovillari sentenza n. 578 del 01 aprile 2025) ha stabilito che integra inadempimento di non scarsa importanza, idoneo a legittimare il recesso ex articolo 1385 del codice civile, la condotta del promittente venditore che, pur avendo garantito contrattualmente la piena e libera proprietà dell'immobile e la sua libertà da qualsiasi peso o vincolo, nonché l'obbligo di consegnare al notaio ogni tipo di documento richiesto per la stipula, omette di sanare le irregolarità urbanistiche preesistenti e sottaciute ai promissari acquirenti.

infine, la sentenza affronta anche la questione del certificato di agibilità, chiarendo che tale documento è necessario non solo per le unità abitative ma anche per le autorimesse che abbiano subito rilevanti ristrutturazioni dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico in materia edilizia). Questa precisazione assume particolare rilevanza nella prassi contrattuale, dove spesso si sottovaluta l'importanza di tale certificazione per immobili diversi dalle abitazioni. La giurisprudenza ha tuttavia chiarito che la mancanza del certificato di agibilità non costituisce automaticamente inadempimento grave quando siano presenti in concreto i requisiti richiesti dalla legge e non sussistano ostacoli al rilascio. La Corte d'Appello di Milano, con sentenza n. 294/2025, ha precisato che "la mancanza del certificato di agibilità dell'immobile promesso in vendita non costituisce inadempimento grave quando siano presenti in concreto i requisiti richiesti dalla legge per l'agibilità e non sussistano ostacoli al rilascio del certificato, atteso che tale deficienza attiene ad un aspetto meramente formale".

Sentenza Tribunale Roma n. 8285/2023


martedì 29 luglio 2025

Tutela possessoria ed azione di reintegrazione ex art. 1168 c.c..

L'azione di reintegrazione nel possesso costituisce uno strumento di tutela immediata e sommaria, concessa a difesa di qualsiasi tipo di possesso.
Il caso in esame, che ha visto impegnato con successo lo studio, contiene tutti gli elementi che riguardano l'azione in oggetto. 
La configurazione del possesso tutelabile richiede la presenza congiunta di due elementi essenziali: il corpus, che si sostanzia nella materiale disponibilità del bene, e l'animus possidendi, che rappresenta l'intenzione di tenere la cosa come propria. 
La giurisprudenza di legittimità e di merito ha reiteratamente affermato che il possesso si configura come potere di fatto sulla cosa che si manifesta in una attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di qualsiasi altro diritto reale, costituito dall'animus, espressione del potere di fatto esercitato come se si avesse il corrispondente diritto, e dal corpus, inteso come la possibilità che il possessore possa impiegare secondo le sue determinazioni l'oggetto del possesso. 
L'accertamento dello spoglio rappresenta a sua volta il fulcro dell'azione di reintegrazione; esso si configura come qualsiasi atto che impedisca o restringa le facoltà inerenti al potere esercitato sulla res, caratterizzato dall'animus spoliandi. L'animus spoliandi integra pertanto l'elemento soggettivo della condotta tesa a violare l'altrui possesso e si sostanzia nella consapevolezza di attentare ad esso contro la volontà manifesta o presunta del possessore. Nel caso di specie non si configura lo spoglio operato dai resistenti poiché questi hanno acquisito il possesso del bene tramite la consegna da parte di un soggetto, riconosciuto dal Tribunale come compossessore, in ottemperanza ad una sentenza passata in giudicato, di talché deve escludersi che si sia concretizzata una condotta di spoliazione, in quanto trattasi non di una sottrazione, ma di una ricezione da taluno che, per la disponibilità delle chiavi e per le vicende oggetto del contenzioso giudiziario, si presentava come avente disponibilità dell'immobile.
Gli elementi oggettivi dello spoglio si articolano nella violenza o nella clandestinità: la prima non richiede necessariamente l'uso della forza fisica, essendo sufficiente che l'azione sia compiuta contro la volontà del possessore, la seconda, invece, va riferita allo stato di ignoranza di chi subisce lo spoglio, il quale deve essersi trovato nell'impossibilità di avere conoscenza del fatto costituente spoglio nel momento in cui questo viene posto in essere. 
L'azione di reintegrazione si svolge secondo il rito sommario di cognizione previsto dall'articolo 703 del codice di procedura civile. Questo procedimento, caratterizzato da una cognizione sommaria, consente al giudice di pronunciarsi sulla base di una valutazione non definitiva delle prove, privilegiando la rapidità della tutela rispetto all'approfondimento istruttorio. 
Un aspetto importante emerso dalle decisioni allegate riguarda la valutazione delle prove nel giudizio possessorio. Il Giudice deve accertare non solo l'esistenza del possesso, ma anche la sua effettiva consistenza al momento dello spoglio, l'onere probatorio grava sul ricorrente che deve dimostrare con verosimile certezza l'effettiva sussistenza di una situazione possessoria sul bene al momento del lamentato spoglio.