giovedì 27 novembre 2014

Inosservanza dello stop ed obbligo accertamento dinamica incidente

In caso di sinistro tra veicoli, la semplice violazione del segnale di stop non implica, di per sé, l'automatico superamento della presunzione di pari responsabilità dei conducenti prevista dall'art. 2054, comma 2, c.c..
Infatti, la presunzione di pari responsabilità prevista dall'art. 2054 c.c. ha carattere sussidiario, dovendosi applicare soltanto nel caso in cui sia impossibile accertare in concreto il grado di colpa di ciascuno dei conducenti coinvolti nel sinistro; l'accertamento della intervenuta violazione, da parte di uno dei conducenti, dell'obbligo di dare la precedenza, non dispensa peraltro il giudice dal verificare il comportamento dell'altro, onde stabilire se quest'ultimo abbia a sua volta violato o meno le norme sulla circolazione stradale ed i normali precetti di prudenza, potendo l'eventuale inosservanza di dette norme comportare l'affermazione di una colpa concorrente.
Cass. Civ., Sez. VI, 19/11/2014, n. 24676 

martedì 25 novembre 2014

Azienda Sanitaria Locale natura di ente pubblico economico inapplicabilità del termine dilatorio di 120 giorni.

Lo scorso 17 novembre il Tribunale di Roma, con sentenza n. 22878/14, ha rigettato l'opposizione a precetto ex art. 615 c.p.c. promossa da un'Azienda Ospedaliera che lamentava il mancato rispetto del termine di 120 giorni previsto a favore delle pubbliche amministrazioni, che deve intercorrere fra la notifica del titolo e la notifica del precetto, così come disposto dall'art. 14 del d.l. 669/96 convertito nella legge 30/97 e modificato dal successivo art. 44, 3° comma, lett. A, del d.l. 269/03.
Lo studio, costituitosi per gli opposti, insisteva per il rigetto dell'opposizione sul presupposto che la natura di ente pubblico economico delle aziende sanitarie ed ospedaliere sarebbe ostativa all'applicazione di detto termine a vantaggio delle medesime.
Nelle more del giudizio di opposizione intervenivano due importanti decisioni che, recependo, un orientamento già fatto proprio dalla giurisprudenza amministrativa, fissano dei principi capaci, sebbene dettati per altre fattispecie, di stravolgere gli attuali assetti anche sotto il profilo squisitamente civilistico.
Con l'illuminata ordinanza n. 49 del 03/06/2013, infatti, la Consulta ha chiarito che “mentre gli enti locali territoriali sono dotati, sia pure in forma meno spiccata rispetto allo Stato, di poteri autoritativi che esercitano attraverso gli strumenti del diritto amministrativo, le aziende sanitarie si caratterizzano, secondo il prevalente e consolidato orientamento interpretativo, per essere enti pubblici economici esercenti la loro attività utendo iure privato”. 
In altri termini le Aziende Sanitarie ed Ospedaliere devono considerarsi come aziende con personalità giuridica pubblica e come centri di imputazione di autonomia imprenditoriale. Esse, pertanto, agiscono e perseguono interessi tipici delle aziende private; investono, guadagnano, spendono (più o meno bene) e devono onorare i propri debiti proprio come tutte le altre aziende. 
Ciò, sempre secondo la giurisprudenza testé richiamata, è dovuto alla legge di riforma con cui la precedente unità sanitaria locale (USL) è divenuta azienda dotata di autonomia organizzativa, gestionale, tecnica, amministrativa, patrimoniale e contabile.
Anche la Cassazione (Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 11088 del 20/05/2014) si è posta recentemente sulla stessa linea di principio, asserendo che le sole Gestioni Liquidatorie delle ex ULSS non possono qualificarsi come ente pubblico economico laddove, invece, a seguito “dell'intervento novellatore del Decreto Legislativo n. 502 del 1992, articolo 3 ad opera del Decreto Legislativo 19 giugno 1999, n. 229, articolo 3, il quale, innovando il precedente assetto organizzatorio, ha stabilito (al comma 1-bis) che le unita' sanitarie locali si costituiscono in aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; la loro organizzazione ed il funzionamento sono disciplinati con atto aziendale di diritto privato, nel rispetto dei principi e criteri previsti da disposizioni regionali". 
L’Azienda Sanitaria ed Ospedaliera, dunque, non può più ritenersi quale ente strumentale della regione, poiché simile qualificazione, contenuta nella originaria formulazione dell’art. 3, comma 1°, del D.Leg.vo n. 502/92, è stata espressamente eliminata dal successivo D.Leg.vo n. 571/93, norma che ha definito l’azienda sanitaria quale “azienda dotata di personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica”.
La giurisprudenza amministrativa (TAR Catanzaro, Sez. II, sentenza n. 37 del 17/01/2001 n. 37 – confermata in appello dalla Va Sez. del Consiglio di Stato con decisione 9 maggio 2001 n. 2609 – e 5 aprile 2002 n. 809), del resto, era già arrivata con un certo anticipo a siffatte conclusioni, nel momento in cui affermava che “l’Azienda sanitaria, quindi, già dal 1993 ha perso il carattere di organo della Regione, acquisendo una propria soggettività giuridica con un autonomia che ha poi assunto, stante il disposto dell’art. 3, c. 1 bis del D.Lgs. 502/92 (comma introdotto dal D.Lgs. 19.6.99 n. 229), anche carattere imprenditoriale (“in funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le unità sanitarie locali si costituiscono in Aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale”), disposizione quest’ultima che ha introdotto una recente giurisprudenza a ritenere che le Aziende sanitarie abbiano assunto la natura di enti pubblici economici”.
Sulla scorta della richiamata giurisprudenza la Curia romana, sposando appieno il teorema difensivo da noi sviluppato, ha affermato che, "ferma la natura di ente pubblico economico delle Aziende Ospedaliere (v., sul punto, ex plurimis C. Cost. ord. n. 49/2013 e Cons. Stato, sez. III dec. n. 5241 del 30/10/2013), non può non rilevarsi come l'interpretazione letterale della norma in questione (che fa riferimento agli enti pubblici non economici) esclude l'applicabilità della suddetta normativa all'Azienda opponente".
Questa sentenza, se non addirittura la prima in assoluto, è sicuramente una delle prime a stabilire l'inapplicabilità del termine dilatorio di 120 giorni quando si agisce in danno delle Aziende Sanitarie ed Ospedaliere e rappresenta un importante inversione di rotta rispetto al passato.

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lunedì 24 novembre 2014

Servitù di veduta ed usucapione

Ai fini dell'acquisto per usucapione, ai sensi dell'art. 1061 c.c., di una servitù di veduta, le opere permanenti destinate al relativo esercizio devono essere visibili in maniera tale da escludere la clandestinità del possesso e da far presumere che il proprietario del fondo servente abbia contezza della situazione di obiettivo asservimento della sua proprietà, per il vantaggio del fondo dominante. Il requisito di visibilità, pertanto, può far capo ad un punto di osservazione non necessariamente coincidente con il fondo servente, purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da un vicina via pubblica.
Cass. Civ., Sez. II, 17/11/2014, n. 24401

Investimento pedone presunzione colpa conducente condotta anomala pedone

La semplice violazione, da parte del pedone, dell'obbligo di concedere la precedenza ai veicoli in transito quando attraversi la strada al di fuori dei passaggi pedonali, non basta di per sé ad escludere in toto la colpa del conducente.
Nel caso di investimento di un pedone da parte di un veicolo senza guida di rotaie, l'art. 2054, comma 1, c.c., pone a carico del conducente di quest'ultimo una presunzione juris tantum di colpa. Per vincere tale presunzione, il conducente ha l'onere di provare che il pedone abbia tenuto una condotta anomala, violando le regole del codice della strada e parandosi imprevedibilmente dinanzi alla traiettoria di marcia del veicolo investitore. 
Cass. Civ., Sez. III, 18/11/ 2014, n. 24472

giovedì 20 novembre 2014

Prelazione agraria e società di capitali

La prelazione agraria a favore del coltivatore del fondo agricolo posto in vendita trova la sua fonte nella legge 26/05/1965 n. 590; alcuni anni dopo, con l'art. 7 della legge n. 817/1971 la prelazione fu estesa anche al proprietario del fondo confinante. La diversa ragione giustificatrice fra le due forme di prelazione fu evidente sin da subito: nel primo caso, con la prelazione del coltivatore del fondo, si intende privilegiare l'impresa agraria sulla proprietà; nella seconda ipotesi, con la prelazione del confinante, la ratio legis risiede nel favorire l'estensione della grandezza del fondo, nel senso di un ampliamento fondiario. Il successivo art. 16, 5° comma, della legge n. 817/71 ha poi allargato la prelazione, per entrambe le ipotesi, pure alle cooperative agricole di coltivatori diretti. 
La prelazione agraria, ai fini della sua applicabilità, richiede la presenza di specifici requisiti soggettivi ed oggettivi, il cui accertamento sovente presenta non poche difficoltà. Innanzitutto, è fondamentale l'individuazione dei soggetti che possono beneficiare dell'istituto in esame; l'art. 8, comma 1°, della legge n. 590/65 riconosce il diritto di prelazione unicamente a favore di determinati coltivatori diretti del fondo offerto in vendita, a condizione che lo stesso coltivatore, in aggiunta ad altri fondi eventualmente posseduti in proprietà od enfiteusi, non superi il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa del titolare del rapporto agrario. Il successivo comma 1° dell'art. 31 della legge richiamata stabilisce che devono considerarsi coltivatori diretti ai fini della legge medesima coloro che direttamente ed abitualmente si dedicano alla coltivazione dei fondi ed al governo del bestiame, sempreché la forza lavorativa del nucleo familiare non sia inferiore ad un terzo di quella occorrente per le normali necessità della coltivazione ed il governo del bestiame.
Il quadro descritto, nella sostanza, non è mutato neanche a seguito dei due provvedimenti legislativi introdotti nel nostro ordinamento dietro impulso della normativa comunitaria: il D. Leg.vo 18/05/2001 n. 228 ed il D. Leg.vo 29/03/2004  n. 99. L'art. 7 del D. Leg.vo n. 228/2001 prevede un criterio di priorità allorquando i coltivatori che, avendone il diritto, intendano esercitare la prelazione siano più di uno; la norma in questione, infatti, ha disposto la prevalenza nell'esercizio del diritto di prelazione in primis ai giovani proprietari coltivatori, anche laddove intervengano in qualità di soci di cooperativa, secondo poi ai proprietari coltivatori più numerosi e, infine, ai proprietari più attrezzati sotto l'aspetto della professionalità. Altra lieve modifica è stata introdotta dal D. Leg.vo n. 99/2004, che da un lato ha riconosciuto qualsiasi veste sociale alle società agricole, seppur a determinate condizioni, ma dall'altro ha riservato il diritto di prelazione esclusivamente alle società agricole di persone che abbiano tra i loro soci un numero consistente di coltivatori diretti. 
Un'altra delle condizione affinché il coltivatore insediato sul fondo possa esercitare il diritto di prelazione è quella che egli coltivi il fondo stesso da almeno un biennio, così come previsto dall'art. 8 della legge n. 590/65, modificato dall'art. 7 della legge n. 817/71. Scopo della norma in esame è quello di garantire un determinato periodo di permanenza sul fondo proprio per giustificare la preferenza concessa dal legislatore. Altro requisito richiesto per l'esercizio della prelazione è l'assenza di alienazioni compiute nei due anni precedenti dal coltivatore. La finalità di simile requisito, previsto sempre dall'art. 8 della legge 590/65, risiede nell'evitare condotte del coltivatore ispirate a fini speculativi piuttosto che alla coltivazione del fondo. Occorre evidenziare, in proposito, il carattere eccezionale dell'istituto in questione, la cui capacità di comprimere l'altrui diritto di proprietà deve essere bilanciato dall'interesse primario di permettere la continuazione dell'attività agricola sul fondo alienando, il che richiede sia l'attualità della coltivazione sia la continuità della medesima in un tempo successivo.
Per quanto concerne la prelazione agraria del confinante, i requisiti richiesti per potersene avvalere sono quelli sin qui descritti, ad essi deve poi aggiungersi quello dell'individuazione esatta di cosa si intende per terreno confinante con quello posto in vendita. Dopo un contrastato iter giurisprudenziale si è giunti a ritenere che il diritto di prelazione, integrando anche in questo caso una limitazione della circolazione della proprietà agricola e della autonomia negoziale, spetti unicamente nel caso di fondi confinanti in senso giuridicamente proprio, ossia per terreni adiacenti e contigui, con contatto reciproco, a nulla rilevando la cosiddetta contiguità funzionale, che si riscontra in caso di terreni separati ma destinati ad essere accorpati in un'unica azienda agraria. Ne deriva che il diritto in esame difetti ogniqualvolta tra i fondi non vi sia contiguità fisica, a causa dell'esistenza di uno spazio interruttivo naturale o artificiale, come ad esempio una strada comunale o interpoderale, un canale pubblico od un corso d'acqua (Cass. 17/07/2002 n. 10377 e 26/11/2007 n. 24622).
Per quanto sin qui detto, si può dunque affermare che in tema di diritto di prelazione e riscatto, per il disposto dell'art. 7 della legge n. 817/71, al proprietario di un fondo agricolo confinante con altro offerto in vendita compete il diritto di prelazione, ovvero il succedaneo diritto di retratto, se ricorrono nei suoi confronti tutte le condizioni dall'art. 8 della legge n. 590/65, a cui il citato articolo 7 espressamente rinvia e, quindi, la qualifica di coltivatore diretto, la coltivazione biennale dei terreni agricoli confinanti di sua proprietà, il possesso della forza lavorativa adeguata ed il non aver effettuato alienazioni di fondi rustici nel biennio precedente. In buona sostanza, il vigente sistema positivo non garantisce il diritto di prelazione nell'acquisto di fondi rustici a tutti i coltivatori diretti in generale, ma unicamente a coloro che, in tale veste, si trovino in un particolare rapporto con il fondo in vendita. In particolare, il proprietario del fondo confinante con quello in procinto di essere ceduto, risulta titolare del diritto di prelazione ovvero di riscatto, in quanto possieda la qualità di coltivatore diretto e nel contempo coltivi direttamente i terreni confinanti con quello in vendita. In aggiunta a ciò, il menzionato art. 7 della legge n. 817/71 esclude il diritto di prelazione del proprietario del fondo confinante se sui fondi offerti in vendita siano insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti (Cass. Civ., Sez. III, 27/01/2011 n. 2019). L'eventuale perdita di proprietà del fondo da parte del confinante intervenuta dopo che questi abbia esercitato il diritto di prelazione o riscatto, non incide sull'acquisto già operato (Cass. 28/06/1994 n. 6192).     
Appurati i casi in cui opera la prelazione agraria, passiamo a verificare se, sotto il profilo soggettivo, possano beneficiarne anche le società di capitali, in aggiunta ai soggetti sin qui indicati.
Sin dall'entrata in vigore della legge nel 1965 ed almeno sino alle novità introdotte dietro impulso della Comunità Europea, la dottrina dominante, prendendo spunto anche da decisioni oggi remote con le quali si riconobbe l'operatività della prelazione a favore del confinante quando sul fondo posto in vendita fosse insediato un affittuario “capitalista”, espressione con cui si voleva indicare chi non era coltivatore diretto ossia colui che conduce l'impresa agricola con prevalenza di capitale e manodopera salariata, non ha mancato di rilevare che la normativa sulla prelazione agraria trovava la sua fonte specifica nel nostro ordinamento, sul presupposto che la figura del coltivatore diretto costituisse la "tipica figura del diritto italiano". In buona sostanza, si tentava di mantenere distinto in modo incisivo l'imprenditore agricolo dall'imprenditore commerciale, per la diversa e più favorevole disciplina che caratterizza il primo rispetto al secondo, per cui si tendeva a circoscrivere in ambiti ristretti il concetto di imprenditore agricolo.
La Comunita Europea ha tuttavia ampliato questi concetti e, sostanzialmente, ha indotto il nostro legislatore a far propria la figura dell'imprenditore agricolo professionale, appunto con il D. Leg.vo n. 99/04. Quest'ultimo ha infatti offerto una qualificazione dell'imprenditore agricolo professionale sulla base di un duplice requisito: a) quantità di lavoro dedicato alle attività agricole (almeno il 50 per cento del proprio tempo lavorativo); b) quantità di reddito globale da lavoro ricavato dall'agricoltura (almeno il 50 per cento). Presupposto di tutto rimane comunque il fatto che egli dedichi la sua attività lavorativa in agricoltura direttamente o in qualità di socio di società. 
La qualifica di imprenditore agricolo professionale viene, inoltre, riconosciuta anche alle società (di persone, cooperative, di capitali) a determinate condizioni: a) l'oggetto sociale esclusivo deve concernere attività agricola ai sensi dell'art. 2135 c.c.(e quindi la società va qualificata come società agricola); b) se società di persone, almeno un socio (in particolare l'accomandatario) deve rivestire la qualifica di imprendere agricolo professionale; c) se società cooperative, almeno un quinto dei soci deve rivestire detta qualifica; d) se società di capitali, almeno un amministratore deve rivestire detta qualifica.
Considerato come il D. Leg.vo n. 288/01 non sembra avere inteso ampliare la cerchia dei beneficiari del diritto di prelazione rispetto alla precedente disciplina, si tratta ora di verificare se detta cerchia sia stata ampliata per effetto dell'art. 2, 3° comma, del D. Leg.vo n. 99/04, il quale dispone che la prelazione agraria sia del soggetto insediato sul fondo sia del confinante "spetta anche alla società agricola di persone qualora almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di coltivatore diretto come risultante dall'iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all'articolo 2188 e seguenti del codice civile". 
La norma è certamente innovativa, perché in precedenza il diritto di prelazione era previsto, oltre che a favore del coltivatore diretto, solo a favore della cooperativa agricola, per effetto della modifica intervenuta nel 1971, modifiche che, tuttavia, costituirono oggetto di disputa in seno alla Cassazione civile, la quale, nel silenzio della norma, da un lato ne affermava l'applicabilità prescindendo dalla qualità di coltivatore diretto dei soci; da un altro lato riteneva indispensabile, per l'operatività della prelazione, l'applicabilità anche per le cooperative agricole dell'art. 8, 1° comma, della legge n. 590/65 in tema di condizioni soggettive del coltivatore diretto.
Il D. Leg.vo n. 99/04 porta ancora più in avanti questa tendenza ampliativa dei soggetti beneficiari della prelazione agraria. Il provvedimento, dopo avere qualificato le società agricole come imprenditori agricoli professionali, ne ha individuato alcuni requisiti basilari come innanzi elencati. E qui si inserisce la norma sulla prelazione, che viene estesa anche alla società agricola di persone qualora almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di coltivatore diretto. Questa norma chiarisce in modo netto, senza pretendere un'interpretazione giurisprudenziale chiarificatrice alla stessa stregua dell'interpretazione che ha richiesto la precedente norma sulle cooperative agricole, lo stretto collegamento che deve sussistere tra la coltivazione diretta del fondo e la prelazione agraria.
A questo punto, si impone una duplice riflessione:
a) il D. Leg.vo n. 99/04 prevede fra le società agricole tutti i tipi di società, a determinate condizioni, ma riserva il diritto di prelazione soltanto alle società agricole di persone. Ciò è ulteriore prova del fatto che ampliando la sfera degli imprenditori agricoli non viene automaticamente ampliata la sfera dei soggetti beneficiari del diritto di prelazione;
b) non tutte le società agricole di persone godono del diritto di prelazione, ma soltanto le società che abbiano tra i soci un buon numero di coltivatori diretti. 
Ne deriva che nessuna influenza sembra possa attribuirsi all'ampliamento del concetto di imprenditore agricolo recato sulla spinta della normativa europea. Basti riflettere che in ossequio al diritto europeo è stata prevista ad un tempo la capacità di reddito e del tempo lavorativo nella misura del 50 per cento, mentre per il coltivatore diretto beneficiario della prelazione agraria non è prevista per nulla la capacità di reddito e la capacità della complessiva forza lavorativa invece prevista viene limitata al 30 per cento (non al 50 per cento) di quella occorrente per la necessità del fondo. Ma soprattutto va precisato che l'ampliamento del concetto di imprenditore agricolo tiene conto anche di un possibile disancoramento di esso da un fondo agricolo, il che rende impossibile un riferimento automatico dell'imprenditore agricolo disegnato dalle nuove norme su impulso comunitario al coltivatore diretto indicato dalle norme speciali sulla prelazione agraria. Inoltre non va sottovalutata la considerazione che l'istituto della prelazione agraria è stato ritenuto, come detto, istituto di natura eccezionale, in quanto limitativo del diritto di proprietà in una delle sue fondamentali manifestazioni: la libera disponibilità del bene da parte del proprietario. Il che comporta che esso non possa essere esteso per analogia a soggetti che la legge non abbia espressamente previsto come beneficiari del diritto ed unici legittimati ad esercitarlo. 
In conclusione, proprio tenuto conto della tassatività dell’elencazione dei soggetti riconosciuti dalla normativa vigente titolari del diritto di prelazione agraria, si può affermare che una società di capitali non può in alcun modo esercitare il diritto di prelazione agraria.

lunedì 17 novembre 2014

Certificato successorio europeo

La L. 30 ottobre 2014, n. 161, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 10 novembre 2014, n. 261 ha, tra le altre cose, introdotto nel nostro ordinamento il Certificato successorio europeo(CSE) il cui rilascio è posto a carico dei notai.
Pertanto, a partire dal 17 agosto 2015, i notai, potranno rilasciare il nuovo Certificato successorio europeo (CSE) tramite il quale eredi, legatari, esecutori testamentari o amministratori dell'eredità potranno fare valere all'estero, senza necessità di compiere in loco ulteriori atti formali, la loro qualità e i connessi diritti, poteri e facoltà.

Allontanamento malato psichiatrico responsabilità della casa di cura.

La casa di cura è responsabile, in virtù della culpa in vigilando che incombe sul personale,  per l'allontanamento dalle proprie strutture di un paziente malato di mente con intenzioni suicide ovvero autolesive.
La Cassazione, nel caso in esame, ha incentrato la decisione  sulla peculiare responsabilità "da custodia" dei pazienti affetti da patologie psichiatriche che si rendano autori di gesti incontrollati, con conseguente produzione di danni a sé o a terzi.
In primo luogo, la S.C. ha ribadito che, con riguardo all'obbligazione istituzionale primaria dell'ente ospedaliero od assimilato di cura delle persone ricoverate, la tutela de "la salute come fondamentale diritto dell'individuo" (art. 32, comma 1, Cost.) non si esaurisce nella mera prestazione delle cure mediche, chirurgiche, generali e specialistiche, ma include la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela che siano destinatarie dell'assistenza sanitaria, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale e, talora, massima della cura (come nel caso di controllo di malati psichiatrici). Sulla scorta di tale presupposto generale, è stato, poi, precisato che nei confronti di persona ospite di reparto psichiatrico, non interdetta né sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio ai sensi della L. 13 maggio 1978, n. 180, la configurabilità di un dovere di sorveglianza a carico del personale sanitario addetto al reparto e della conseguente responsabilità risarcitoria ai sensi dell'art. 2047, comma 1, c.c. per i danni cagionati dal ricoverato presuppone soltanto la prova concreta della incapacità di intendere e di volere del medesimo. A tal proposito si è, perciò, ulteriormente specificato che la responsabilità civile del soggetto tenuto alla sorveglianza di una persona incapace, la quale abbia cagionato danni a terzi, deriva dall'art. 2047 c.c., che dà luogo ad una responsabilità diretta e propria di coloro che sono tenuti alla sorveglianza, per inosservanza dell'obbligo di custodia, ponendo a carico di essi una presunzione di responsabilità, che può essere vinta solo dalla prova di non aver potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio della sorveglianza impiegata.
Cass. Civ., Sez. III, 22 ottobre 2014, n. 22331

giovedì 13 novembre 2014

Contratti di vendita negoziati fuori dai locali commerciali

In materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali, l’art. 1, comma 1, lett. c), del d.lgs. 15 gennaio 1992, n. 50 va interpretato in coerenza con le finalità della direttiva comunitaria di cui è attuazione (ossia di evitare negoziazioni che possano cogliere di sorpresa il consumatore), sicché non rientrano fra i contratti e le note d’ordine sottoscritti in “area pubblica o aperta al pubblico” quelli sottoscritti in “stand” allestiti all’interno di fiere o saloni di esposizione.
Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza n. 22863 del 28/10/2014

Liberalizzazioni, possibilità per alimentari di vendere giornali e riviste.

La Seconda Sezione. II del T.A.R. Bolognese ha stabilito che trova applicazione, in relazione all'apertura di nuovi punti vendita esclusivi e non di giornali e riviste, la normativa di cui al cd. "decreto Bersani" che aveva previsto la liberalizzazione delle autorizzazioni e che pertanto debba considerarsi illegittima qualsivoglia misura limitante delle nuove aperture fondata su restrizioni quantitative o territoriali, atteso che l'art. 3, comma 1, lett. d) del citato decreto ha disposto l'abrogazione con effetto immediato delle precedenti disposizioni in cui erano previsti limiti alle autorizzazioni aventi a oggetto quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale.
T.A.R. Emilia Romagna, Sez. II, 26/09/2014, n. 914

Incompatibilità impresa familiare con ogni forma societaria

Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno da poco composto il contrasto giurisprudenziale insorto circa la compatibilità o meno dell'impresa familiare con la disciplina societaria di qualunque tipo.
In sintesi, ciò che davvero si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria, secondo le Sezioni Unite, è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa: e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione, come, invece, avviene nelle compagini sociali.
Cass. Civ., Sez. Unite, 06/11/2014, n. 23676 

martedì 11 novembre 2014

Assicurazione contro il furto e clausole limitative

Con la sentenza in esame la Cassazione ha ribadito il principio secondo cui, nel contratto di assicurazione, sono da considerare clausole limitative della responsabilità, ai sensi dell'art. 1341 c.c. (con necessaria e specifica approvazione preventiva per iscritto), quelle che limitano le conseguenze della colpa o dell'inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre attengono all'oggetto del contratto quelle altre clausole che riguardano il contenuto ed i limiti della garanzia assicurativa e, pertanto, specificano il rischio garantito. Queste tipo di clausole non richiedono, dunque, l'approvazione preventiva per iscritto ai sensi e per gli effetti dell'art. 1341 c.c.; fra esse possiamo annoverare, a titolo di esempio, quella che prevedeva l'installazione di un certo tipo di impianto di antifurto. 
Sulla scorta di simile premessa, la decisione ha ribadito il principio secondo il quale le clausole di un contratto di assicurazione contro il furto, che prevedono la subordinazione dell'operatività della garanzia assicurativa all'adozione di speciali dispositivi di sicurezza o al rispetto di oneri diversi, non realizzano una limitazione della responsabilità dell'assicuratore ma hanno la funzione di delimitare l'oggetto del contratto ed il rischio dell'assicuratore stesso, con la conseguenza, peraltro, sul piano probatorio, che l'adozione di tali misure configura come elemento costitutivo del diritto all'indennizzo, donde costituisce onere dell'assicurato fornire la relativa prova.
Cass. Civ., Sez. III, 28 ottobre 2014, n. 22806